È partito il mio bene (Giovan Battista Marino)

È partito il mio bene,

ho perduto il mio core. Oimè, qual vita

in vita or mi sostene?

Lasso, com'è rimaso

fosco il sol, negro il cielo!

Il dì giunto al'occaso,

amor fatto è di gelo.

Duro partir, che m'hai l'alma partita,

chi ti disse partire

devea con più ragion dirti morire.


O Dio, quel dolce a Dio

che piangendo mi disse, a cui piangendo

a Dio risposi anch'io,

deh, come dala spoglia

l'anima non divise?

E come per gran doglia

la vita non uccise?

Alma e vita io non ho, poiché, perdendo

il mio dolce conforto,

a Dio dirgli ho potuto, e non son morto.

Morto non sono ed ardo

lontan dal foco mio, dal caro foco

di quel celeste sguardo.

E quanto è men dapresso

la fiamma ond'io languisco,

dal grave incendio oppresso

più moro e 'ncenerisco.

Il foco, ahi no, che per cangiar di loco

da me non si disgiunge;

sol la cagion del foco è da me lunge.

Tetto, già lieto e fido

tempio del'idol mio, ciel del mio sole,

or solitario nido,

spelunca abbandonata

di spavento e di morte,

chiudi, chiudi l'entrata

dele dolenti porte;

tenebrosa magion, misera mole,

cadi pur, cadi, ahi lasso,

ch'al mio core è saetta ogni tuo sasso.

Balcon gradito e caro,

che fosti già di più sereno die

oriente più chiaro,

or fatto atro soggiorno

di notte oscura e mesta,

serra, deh serra al giorno

la finestra funesta;

ché, qualor s'apre a queste luci mie,

con spada di dolore

me n'apre un'altra in mezzo al petto Amore.

Cameretta fedele,

già pacifico porto e dolce meta

dele mie stanche vele,

or che battuto ondeggio

per l'onde e per gli scogli,

poiché morir pur deggio

fra pianti e fra cordogli,

chi mi cela il mio polo? e chi mi vieta

che morte e tomba almeno

non mi dian que' begli occhi e quel bel seno?

Letto, del mio diletto

felice un tempo albergo, or del mio duolo

sconsolato ricetto,

se sei pur, come sembri,

di me pietoso tanto,

poich'accogli i miei membri

ed asciughi il mio pianto,

pietà più non chegg'io; cheggioti solo,

in questa notte oscura,

che ti cangi di letto in sepoltura.

Specchio, che ti specchiavi

nel sol del chiaro volto e nele stelle

de' begli occhi soavi,

or di quel lume ardente

vedovato ed oscuro,

ben sei cristallo algente,

anzi diamante duro,

se per più non stampar luci men belle

di quelle onde sei privo,

non distempri il tuo ghiaccio in pianto vivo.

Candido eburneo rastro,

non ch'agguagli però dela man bianca

l'animato alabastro,

tu che solevi, arando

i solchi dei bel crine,

l'oro gir coltivando

dele fila divine,

ahi come sono, or ch'ogni ben ti manca,

i tuoi minuti denti

sol per mordermi il cor fatti pungenti!

Acque felici e chiare,

cui d'esser tributario ebbe più volte

ambizione il mare;

in cui vivono ancora

le faville amorose

di quel sol che talora

ne' vostri umor s'ascose;

deh, perché non struggete, inun raccolte,

accresciute dal'onde

dele lagrime mie, l'infauste sponde?

Aria pura e gentile,

fatta serena già da sì bei rai,

non avrai dunque a vile

ch'altro petto, altro fiato

di te viva e respiri?

Terren sacro e beato,

non sdegni e non t'adiri

ch'altro men vago piè ti calchi mai,

quando ancora si serba

dele bell'orme in te fiorita l'erba?

Musici arnesi, e voi

che talor l'angel mio trattar solea,

dolci trastulli suoi,

che sua mercé rendeste

angelica armonia,

senza la man celeste

di voi, lassi, che fia?

Poscia che così vuol fortuna rea,

omai le vostre tempre

ché non sciogliete? o non piangete sempre?

Ma tu perché non torni,

o sol degli occhi miei?

Deb, che fai? chi t'accoglie? e dove sei?


Giovan Battista Marino

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