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Siamo lieti di riproporvi questa carrellata di disegni del grande pittore olandese Vincent Van Gogh conosciuto in ogni angolo della terra.
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Gli Egizi, possedendo contemporaneamente tre mezzi diversi per esprimere le idee, adoperarono in uno stesso testo quello che pareva loro il più appropriato alla rappresentazione di una data idea. Se l’oggetto di un’idea non poteva essere espresso con chiarezza, procedendo sia in senso proprio con un carattere figurativo, sia metaforicamente con un carattere simbolico, lo scrivano ricorreva ai caratteri fonetici, i quali supplivano egregiamente alla rappresentazione diretta o indiretta dell’idea, con la pittura convenzionale della parola-segno di questa stessa idea…
Risulta infine da tutto ciò che precede, e con piena evidenza:
1) che non c’era nessuna scrittura egizia completamente RAPPRESENTATIVA, come si e creduto che fosse, per esempio, la scrittura messicana;
2) che non esiste, sui monumenti dell’Egitto, una scrittura regolare completamente IDEOGRAFICA, cioè basata sulla sola unione di caratteri figurativi e di caratteri simbolici;
3) che l’Egitto primitivo non si servì affatto di scrittura completamente FONETICA;
4) ma che la scrittura GEROGLIFICA e un sistema complesso, una scrittura nel contempo FIGURATIVA, SIMBOLICA e FONETICA, in uno stesso testo, in una stessa frase, direi quasi nella stessa parola.
Credo, in effetti, di avere acquisito la convinzione che, da questa facoltà riconosciuta di rappresentare uno stesso suono con una sfilza di segni-immagine completamente diversi, gli Egizi seppero trarre un vantaggio singolare e ben appropriato al genio che l’Antichità intera attribuisce loro: quello di simboleggiare un ‘idea tramite i caratteri stessi che rappresentavano in primo luogo il suono della parola, segno di tale idea nella lingua parlata; di conseguenza, per scrivere i suoni principali e tutte le articolazioni di una parola, poterono scegliere fra i diversi caratteri omofoni che erano padroni di adoperare, quelli che, nella loro forma, rappresentavano oggetti fisici in relazione diretta o convenzionale con l’idea significata dalla parola di cui questi stessi caratteri servivano in primo luogo a esprimere la pronuncia.
Cosi, per esempio, avrebbero preferibilmente espresso la S della parola si, se, sa, figlio, bambino, rampollo, lattante”, con il carattere ovoide (un uovo), poiché rappresenta un germe, un chicco, una semenza… Nel gruppo SA, che ha la stessa valenza, avrebbero adoperato l’oca o chenalopex, perché avevano notato, secondo Orapollo, che questo uccello nutriva una grande tenerezza per i suoi piccoli.
Nella scrittura sacra, un’idea poteva essere resa indifferentemente sia con caratteri fonetici raffiguranti le parole che ne costituivano i segni nella lingua parlata, sia con un carattere simbolico, il quale esprimeva l’idea e non la parola.
Dopo aver ravvisato soltanto la natura puramente figurativa di un certo numero di segni nella scrittura sacra degli Egizi, si e ancora lontani dall’avere un’idea esatta di questo singolare sistema; infatti i segni di tale gruppo si trovano, per cosi dire, sperduti in mezzo a moltissimi altri, dei quali alcuni dimostrano, soltanto per la loro forma, di dipendere da un metodo espressivo molto diverso da quello dei primi, che esprimono l’idea di un oggetto con la forma stessa di questo oggetto. Quali furono quindi le modalità espressive degli altri caratteri?
A questo proposito gli autori greci ci forniscono nozioni preziose, che l’autorità dei monumenti conferma in tutta la loro portata.
Risulta dalle diverse asserzioni di Clemente Alessandrino, di Diodoro Siculo e da tutto il libro di Orapollo che gli Egizi, nella loro scrittura sacra, procedevano spesso con un metodo simbolico o enigmatico.
In effetti, nell’analisi di diverse iscrizioni geroglifiche, – tentata nei nostri capitoli precedenti – abbiamo osservato alcuni caratteri che esprimerebbero ciascuno l’idea di un oggetto di cui questi stessi caratteri pero di per se non rappresentavano la forma.
Questi segni ovviamente sono fra quelli che gli antichi hanno chiamato geroglifici simbolici, tropici ed enigmatici.
Pare che i caratteri simbolici siano stati particolarmente consacrati alla rappresentazione delle idee astratte che erano di dominio della religione e dell’autorità reale: tali sono, per esempio, nell’iscrizione di Rosetta, le idee di Dio, immortalità, vita divina, potenza, bene, beneficio, Legge o decreto, regione superiore, regione inferiore, panegirico, tempio, ecc.
Nella determinazione dei segni simbolici o tropici, gli Egizi procedettero principalmente:
1) per sineddoche, accontentandosi di dipingere la parte per esprimere il tutto. Così, due braccia che reggono un dardo e un arco significavano una battaglia, un esercito schierato a battaglia; due braccia levate al cielo, un’offerta; un vaso da cui fuoriesce acqua, una libagione…;
2) per metonimia, dipingendo la causa per l’effetto. Ecco perché vediamo, nell’iscrizione di Rosetta, l’idea di “mese” espressa, come dice Orapollo, dall’immagine della falce di luna, con i corni rivolti in basso…;
3) per metafora (cosa che in fondo rientra nello spirito comune dei procedimenti indicati finora), adoperando l’immagine di un oggetto per esprimere una cosa diversa dall’oggetto stesso. Cosi, l’ape significava un popolo obbediente al suo re; le parti anteriori di un leone, la forza; il volo dello sparviero, il vento; un aspide, la potenza della vita e della morte; il coccodrillo, la rapacità.
4) Infine, una sfilza di segni simbolici erano, a dire il vero, effettivi enigmi, poiché gli oggetti di cui questi caratteri presentavano le forme erano in rapporto troppo lontano e quasi puramente convenzionale con l’oggetto dell’idea che si voleva far esprimere. Cosi lo scarabeo era il simbolo del mondo, della natura maschile o della paternità; l’avvoltoio, quello della natura femminile e della maternità; un serpente sinuoso simboleggiava il corso degli astri; e possiamo scorgere in Orapollo e in Clemente Alessandrino, le ragioni che indussero gli Egizi a scegliere queste creature come segni di queste idee cosi diverse e cosi lontane dalla loro natura.
Bisogna soprattutto includere fra i segni simbolici enigmatici, quelli che, nei testi egizi, occupano il posto dei nomi propri delle diverse divinità, caratteri la cui valenza e gia conosciuta in maniera certa.
I nomi divini simbolici sono di due specie.
I primi si compongono di un corpo umano, con o senza braccia, ma la cui testa e sostituita da quella di un quadrupede, di un uccello o di un rettile, ecc. Queste teste di animali, cosi aggiunte al corpo di un uomo o di una donna, danno un carattere speciale a ogni divinità egizia: un uomo con la testa di ariete esprime l’idea di Amon-Knufis; un uomo con testa di sparviero sormontata da un disco, quella del dio Ra; un uomo con testa di sciacallo, quella del dio Anubi, un uomo con testa di ibis, quella del dio Thoth; un uomo con testa di coccodrillo, quella del dio Sobek, ecc. Tali accostamenti mostruosi erano modellati sulle similitudini che gli Egizi avevano stabilito fra certi dei e certi animali, le cui qualità dominanti o le abitudini parvero loro adatte a richiamare alla mente le qualità o le funzioni dei personaggi mitici…
La seconda specie di caratteri simbolico-enigmatici che designano nomi divini consiste semplicemente nella raffigurazione intera dell’animale consacrato a ogni dio o dea; in tal caso gli animali portano le insegne proprie alla divinita di cui essi sono gli emblemi. Cosi, uno sparviero che ha un disco sulla testa esprime simbolicamente il dio Ra; un ariete con le corna sormontate da lunghe piume o da un disco, Amon-Knufis; uno sparviero mitrato, il dio Horsiesi; uno sciacallo armato di frusta, Anubi; un ibis e persino un cinocefalo, specie di scimmia con testa di cane, il dio Thoth, l’Ermete e il Mercurio egizio.
Nell’usare la metafora, si dipingeva un oggetto che avesse qualche similitudine concreta o generalmente fittizia con l’oggetto dell’idea da esprimere. Cosi, si esprimeva la sublimità con uno sparviero per via del volo elevato di tale uccello; la contemplazione o la visione, con l’occhio dello sparviero, perché si ascriveva a questo volatile la facoltà di fissare lo sguardo sul disco del sole; la madre, con l’avvoltoio perché gli si attribuiva una particolare tenerezza nei confronti dei suoi piccoli, che, si diceva, nutrisse con il proprio sangue; la priorità, la preminenza o la superiorità con le parti anteriori del leone mentre il capo del popolo, il re, con una specie di ape perché questo insetto e subordinato a un comportamento regolare; la devozione, la virtù o la purezza, con uno scettro a testa di upupa, poiché si credeva che questo animale nutrisse con tenerezza i suoi genitori diventati vecchi; uno ierogrammata o scriba sacro con uno sciacallo oppure con lo stesso animale posto su un basamento perché questo funzionario sacerdotale doveva vegliare con sollecitudine, come un cane fedele, sulle cose sacre.
Si procedeva insomma per enigmi adoperando, per esprimere un’idea, l’immagine di un oggetto fisico che avesse soltanto rapporti molto reconditi, esageratamente lontani, spesso persino di mera convenzione, con l’oggetto medesimo dell’idea da trascrivere. Secondo tale metodo, assai vago di per se, una piuma di struzzo significava la giustizia [perché, si diceva, tutte le penne delle ali di quest’uccello sono uguali… ( qui il nostro prende un abbaglio: giustizia perché il cuore/anima dei giusti è leggera come una piuma ndr) .Una stella adoperata in senso simbolico, rammentava l’idea di un dio o di un’essenza divina.
Dopo aver stabilito che i nomi degli dei possono essere scritti in maniera fonetica e figurativa, Champollion constata:
Credo di avere anche acquisito la certezza che i nomi di alcuni dei erano scritti in una terza maniera nei testi geroglifici, e che tale trascrizione avveniva secondo un metodo puramente simbolico: Osiride, per esempio, era espresso abitualmente con un occhio e un trono; Iside, con lo stesso trono, seguito dai segni del genere femminile; i nomi di Horns e di Arueris, – divinità che mi sono parse formare un unico e medesimo personaggio nei testi geroglifici dove sono perennemente confusi, – vengono espressi con uno sparviero seguito da una Linea perpendicolare, da uno sparviero con in testa uno pschent, o da uno sparviero armato di frusta o flagello… Cosi veniamo indotti tramite fatti palpabili a riconoscere che, nel sistema geroglifico, gli Egizi scrivevano i nomi dei loro dei in tre maniere diverse:
1) foneticamente;
2) figurativamente, con l’immagine stessa del dio o della dea che si trattava di rammentare;
3) infine simbolicamente, con l’immagine di uno o pia oggetti fisici con cui il dio era direttamente o indirettamente in relazione, secondo le idee proprie del popolo egizio.
II rispetto profondo che tutti gli antichi popoli dell’Oriente ebbero in generale per i nomi propri dei loro dei bastava gia per indurre gli Egizi a esprimere questi nomi sacri con caratteri simbolici piuttosto che con segni designanti i suoni stessi di tali nomi. In effetti, possiamo vedere nel trattato di Giamblico sui misteri, l’importanza che gli Egizi, e i Greci cresciuti alla loro scuola, annettevano ai nomi degli dei, che ritenevano di istituzione divina, pieni di un significato misterioso, risalenti ai secoli più prossimi all’origine delle cose, e pochissimo suscettibili di essere tradotti in lingua greca. Questi nomi mistici, e vero, sono sovente espressi foneticamente nei testi geroglifici e ieratici; tuttavia, non bisogna dimenticare che i testi di tale genere venivano scritti da membri della casta sacerdotale, e che furono consacrati e concepiti in caratteri destinati soprattutto a redigere materie religiose. Ma nei testi demotici considerati profani e volgari, i nomi degli dei paiono essere sempre stati espressi tramite i simboli, e mai foneticamente: ecco perché gli Ebrei, dovendo scrivere il nome ineffabile, il tetragramma Yahweh-YHWH (Geova), lo rimpiazzavano spesso con un’abbreviazione convenuta, non lo pronunciavano mai leggendo i testi, e vi sostituivano la parola Adonai.
L’esame di parecchi manoscritti egizi mi ha anche convinto che, per motivi simili, certi nomi divini geroglifici venivano scritti in una maniera e pronunciati in un’altra.
Gli anaglifi propriamente detti o le tavole allegoriche, benché formati in generale da immagini mostruose, erano tuttavia in rapporto diretto con la scrittura geroglifica pura. I testi sacri e gli anaglifi avevano una certa quantità di caratteri comuni, e in questo novero ci furono, per esempio, i segni simbolici, che stavano al posto dei nomi propri di divinità differenti; segni introdotti nei testi geroglifici, in qualche modo, come caratteri rappresentativi degli esseri mitici. Tali furono, secondo i fatti, i rapporti teorici e pratici che legavano le diverse parti del sistema grafico degli Egizi. Questo sistema cosi esteso, figurativo, simbolico e fonetico nel contempo, abbracciava, sia direttamente, sia indirettamente, tutte le arti imitative. Il loro principio non fu in Egitto quello che, in Grecia, presiedette al loro estremo sviluppo: queste arti non avevano come scopo particolare la rappresentazione delle belle forme della natura; tendevano soltanto all’espressione di un certo ordine di idee, e dovevano soltanto perpetuare non il ricordo delle forme, ma quello stesso delle persone e delle cose. L’enorme colosso, come il più piccolo amuleto, erano segni fissi di un’idea; per quanto rifinita o grossolana fosse la loro esecuzione, lo scope veniva raggiunto, poiché la perfezione delle forme nel segno era assolutamente secondaria. Ma in Grecia la forma fu tutto; si coltivava l’arte per l’arte. In Egitto non fu che un mezzo potente di dipingere il pensiero; il più piccolo ornamento dell’architettura egizia ha la propria espressione, e si ricollega direttamente all’idea che motive la costruzione dell’intero edificio, mentre le decorazioni dei templi greci e romani parlano troppo spesso soltanto all’occhio, e Sono muti per lo spirito. Il genio di questi popoli perciò si mostra fondamentalmente diverso. Presso i Greci, la scrittura e le arti imitative si separarono molto presto e per sempre; ma in Egitto, la scrittura, il disegno, la pittura e la scultura marciarono costantemente a fianco a fianco verso una medesima meta; e se consideriamo lo stato particolare di ciascuna di queste arti, e soprattutto la destinazione dei loro prodotti, possiamo affermare che si erano appena confuse in una sola arte, nell’arte per eccellenza, la scrittura. I templi non erano, se possiamo esprimerci cosi, che grandi e magnifici caratteri rappresentativi delle dimore celesti: le statue, le immagini dei re e dei semplici individui, i bassorilievi e le pitture che rievocavano in senso proprio scene della vita pubblica e privata, rientravano, per così dire, nella classe dei caratteri figurativi; e le immagini degli dei, gli emblemi delle idee astratte, gli ornamenti e le pitture allegoriche, insomma la numerosa serie degli anaglifi, si collegavano in maniera diretta al principio simbolico della scrittura propriamente detta.