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Corpo di donna… (Pablo Neruda)

Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.

Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma,
come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.

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Quando ti sciogli i capelli col kanghi (Qalandar-bakhsh Giur’at)

Quando ti sciogli i capelli col kanghi*,
sconvolgi il cuore e quell'arruffio
vedendo, s'arruffa l'anima in petto…
La fronte tua per purezza s'accompagna alla luna
e come la luna mostra un marchio d'amore sul cuore.
Le sopracciglia son archi, al vedere i quali, nel seno
senza apparente ferita s'infligge, scagliata, la freccia.
Son streghe gli occhi, pugnali le ciglia, lancia lo sguardo
e il mobile volger degli occhi carezza grazioso il cuore…
Come pesce fuor d'acqua palpita il cuore agli amanti
allorch tu fai vibrare voluttuosa le nari.
Somigliano a vivi rubini le labbra rosse di betel
socchiuse, e dietro si mostrano scintillanti perle di denti…
Ritti e sodi i seni che non entrano nella mia mano
e il cuore sconvolto da quella durezza, e la mente.
Il ventre liscio lenzuolo di farina, e l'ombelico
turba lo sguardo quando si eleva il kurti**
per una tua mossa improvvisa…
E quando vago lo sguardo sul pube ricolmo, il
sospiro svela felice quello che teneva velato e nascosto.
Sode, bianche e rotonde sono le natiche sue,
che, a passarci sopra la mano, vibra di gioia la pelle…

Qalandar-bakhsh Giur'at

*   kanghi = pettine
** kurti = camicetta

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Quella … (Giovanni Della Casa)

Quella, che del mio mal cura non prende,
come colpa non sia de' suoi begli occhi
quant'io languisco, o come altronde scocchi
l'acuto stral che la mia vita offende,

non gradisce il mio cor, e no 'l mi rende,
perch'ei sempre di lacrime trabocchi;
n vl ch'i' pra, e perch gi mi tocchi
Morte col braccio, ancor non mi difende.

E io son preso, ed 'l carcer aperto;
e giungo a mia salute, e fuggo indietro;
e gioia 'n forse bramo, e duol ho certo.

Da spada di diamante un fragil vetro
schermo mi face: e di mio stato incerto
n morte Amor da te, n vita impetro.

Giovanni Della Casa (1503-1556)

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Adriano

AdrianoCi è stato tramandato che Traiano, trovandosi sul letto di morte, abbia deciso di adottare come figlio Adriano. Nessuna prova però ci è giunta a confutare questo fatto. Alcuni pensano che sia stata Plotina, moglie dell’imperatore, a simulare quest’ adozione per il grande affetto che nutriva per Adriano.
Il futuro imperatore si trovava in Antiochia in qualità di governatore della Siria quando ricevette la notizia dell’adozione. Passarono solo due giorni e giunse una nuova notizia; la notizia della fine dell’ imperatore.
 
Come Traiano, Adriano discendeva da famiglia italiana trapiantatasi al tempo di Scipione in Spagna, ad Italica, e qui era nato nel 76. Sua ava era una zia di Traiano. All’età di dieci anni morì suo padre. Traiano era stato il suo tutore e alla scuola di un così grande soldato era cresciuto il giovanetto, che lo aveva seguito in ogni guerra e ne aveva avuto consigli, esempio ed onori.

Nel 98 era stato Adriano a portare a Traiano nella Germania superiore la notizia della morte di Nerva; poco tempo dopo aveva stretto i legami di parentela con l’imperatore sposandone una pronipote, Sabina; lo aveva accompagnato nella prima e nella Seconda guerra contro i Daci e in quest’ultima si era tanto distinto da meritarsi un dono di grande valore e di altissimo significato: l’anello prezioso che Traiano aveva ricevuto da Serva il giorno dell’adozione.

Le origini di Cracovia

Le origini di Cracovia sarebbero legate al mitico principe Krak le cui sorti si intrecciano con la leggenda del drago di Cracovia che viveva in una caverna ai piedi della collina di Wawel. Proprio per commemorare il principe, che liberò il popolo dalla vorace bestia, il paese fu chiamato Krakow (Cracovia), mentre in onore al principe i sudditi innalzarono un tumulo monumentale detto la Collina di Krakus.

 

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Non si debbono affrettare le voluttà di Venere (Ovidio Nasone)

Credimi: non si debbono affrettare
le voluttà di Venere; tardarle
giova con lenti prolungati indugi.
Quando i luoghi hai trovati ov'ella gode
d'esser toccata, allor non ti trattenga
dalle carezze tue nessun pudore;
sfavillanti di trmulo fulgore
le vedrai gli occhi, come quando il sole
splende in un'acqua mobile riflesso.
E poi lagni mrmure, e un soave
gemere, e gridi al dolce giuoco amici.

Ovidio Nasone (43 a.C.-16 d.C.)
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Posso scrivere i versi (Pablo Neruda)

Posso scrivere i versi più tristi stanotte.

Scrivere, per esempio. "La notte stellata,
e tremano, azzurri, gli astri in lontananza".

E il vento della notte gira nel cielo e canta.

Posso scrivere i versi più tristi stanotte.
Io l'ho amata e a volte anche lei mi amava.

In notti come questa l'ho tenuta tra le braccia.
L'ho baciata tante volte sotto il cielo infinito.

Lei mi ha amato e a volte anch'io l'amavo.
Come non amare i suoi grandi occhi fissi.

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