Adriano

AdrianoCi è stato tramandato che Traiano, trovandosi sul letto di morte, abbia deciso di adottare come figlio Adriano. Nessuna prova però ci è giunta a confutare questo fatto. Alcuni pensano che sia stata Plotina, moglie dell’imperatore, a simulare quest’ adozione per il grande affetto che nutriva per Adriano.
Il futuro imperatore si trovava in Antiochia in qualità di governatore della Siria quando ricevette la notizia dell’adozione. Passarono solo due giorni e giunse una nuova notizia; la notizia della fine dell’ imperatore.
 
Come Traiano, Adriano discendeva da famiglia italiana trapiantatasi al tempo di Scipione in Spagna, ad Italica, e qui era nato nel 76. Sua ava era una zia di Traiano. All’età di dieci anni morì suo padre. Traiano era stato il suo tutore e alla scuola di un così grande soldato era cresciuto il giovanetto, che lo aveva seguito in ogni guerra e ne aveva avuto consigli, esempio ed onori.

Nel 98 era stato Adriano a portare a Traiano nella Germania superiore la notizia della morte di Nerva; poco tempo dopo aveva stretto i legami di parentela con l’imperatore sposandone una pronipote, Sabina; lo aveva accompagnato nella prima e nella Seconda guerra contro i Daci e in quest’ultima si era tanto distinto da meritarsi un dono di grande valore e di altissimo significato: l’anello prezioso che Traiano aveva ricevuto da Serva il giorno dell’adozione.


 
Al pari del defunto imperatore Adriano era alto e forte, camminatore instancabile, cavaliere eccellente, perfetto tiratore d’arco. Andava sempre sotto qualunque clima, a capo scoperto; era cacciatore appassionato, audace e nello stesso tempo prudente, di maniere semplici, frugalissimo, amante delle armi e dei viaggi. Ciò che però lo distingueva da Traiano era l’amore delle lettere e delle arti. Di grande memoria, d’ingegno vivace e di parola facile, Adriano si intendeva di musica, di pittura, di scultura, di architettura, di filosofia, scriveva in prosa e in poesia, in greco e in latino; in greco anzi era così versato ed era così amante della civiltà e della cultura ellenica che a Roma gli avevano messo il nomignolo di "graeculus".
Appena ad Antiochia si seppe dell’adozione di Adriano e della morte di Traiano, le truppe acclamarono imperatore il loro generale, ma Adriano, il quale, oltre ad essere un prode soldato era un avveduto uomo politico, disse loro che solo il Senato aveva il diritto di eleggere il principe, indi scrisse al Senato chiedendo che gli fosse confermato il potere imperiale e giurando di governare per il bene dell’ impero. «Il principe appartiene allo stato e non lo stato al principe » scriveva, e nello stesso tempo domandava che fosse fatta l’apoteosi di Traiano.
Il Senato rispose confermandogli la potestà, e Adriano fu sollecito a ingraziarsi la Curia promettendo che non avrebbe mai e senza il consenso dell’assemblea firmata alcuna sentenza di morte a carico di un senatore; cercò di ingraziarsi il popolo e le legioni facendo loro le solite elargizioni.
 
Nell’agosto del 118 egli fece il suo ingresso a Roma. Voleva il Senato che il trionfo decretato a Traiano fosse da Adriano solennizzato in suo onore; ma il nuovo imperatore rifiutò e in memoria del defunto fu celebrato un trionfo splendido durante il quale la statua del conquistatore della Dacia venne portata nel tempio di Giove sul Campidoglio. Più tardi, il 24 gennaio del 119, ricorrendo l’anniversario dell’ imperatore, furono dati giuochi magnifici in cui cento leoni ed altrettante leonesse furono uccise nel circo.
Per cattivarsi ancora di più la simpatia del popolo di Roma e dei provinciali Adriano con un atto di opportuna generosità ridusse i debiti di questi ultimi, a quello distribuì un doppio donativo, ai cittadini condonò i debiti che verso il fisco avevano contratti da sedici anni per una somma che raggiunse la cifra di novecento milioni di sesterzi e stabilì che ogni quindici anni si facesse una revisione dello stato dei debiti e che le imposte, anziché col sistema degli appalti, venissero riscosse direttamente.
 
L’impero di Adriano si inaugurava coi migliori auspici, ma sciaguratamente delle condanne ne avevano macchiato gli inizi, condanne che ci mostrano come non da tutti fosse ben vista l’assunzione al principato del nuovo imperatore. Non tutti, difatti, erano contenti della scelta di Adriano. In lui parecchi, che appartenevano alla nobiltà guerriera ed erano seguaci della tradizione romana, vedevano un capo che tendeva a scostarsi dalla linea seguita da Traiano, un uomo che prediligeva molto l’ellenismo a scapito del romanesimo, un principe che alla politica di espansione preferiva una politica di raccoglimento e di difesa. Costoro inoltre avevano motivi personali di risentimento verso  l’imperatore. Fra questi erano Cornelio Palma, il conquistatore dell’Arabia Pètrèa, e Lucio Quieto, valoroso generale che molto si era distinto sotto Traiano nelle guerre di Oriente.
A Palma da Traiano era stato tolto il comando e il generale attribuiva la causa della sua disgrazia al malanimo di Adriano. Quieto era stato esonerato dal comando delle legioni della Palestina e poi anche dal governo della Mauritania. Quieto e Palma si erano uniti ai due consolari Publilio Celso e Avidio Negrino e tutti a quattro avevano organizzata ai danni dell’ imperatore, -mentre lui era assente da Roma- una congiura, che però era stata sventata dalla vigilanza di Attiano e Sulpicio Simile, prefetti delle coorti pretorie. II Senato era stato sollecito a mandare a morte i quattro congiurati.
 
Adriano si mostrò spiacente che a sua insaputa si era tolta la vita ai colpevoli e fece capire che se i quattro non fossero stati così frettolosamente soppressi egli avrebbe concesso loro la grazia. Per confermare i suoi intendimenti tolse dalla carica Attiano e Simile e in loro vece diede il comando dei pretoriani a Claro e Turbone, poi rinnovò la dichiarazione, già fatta per lettera, che non avrebbe firmato per nessun senatore la sentenza di morte senza il consenso di tutto il Senato.
 

Il governo imperiale di Adriano

AdrianoL’impero di Adriano fu lungo e non funestato da guerre di grande entità, che rimase degno di memoria per le importantissime riforme da lui fatte nell’organizzazione civile e militare dello Stato.
L’amministrazione centrale ebbe da lui una riforma veramente fondamentale. Da Augusto in poi avevano acquistata grande importanza nelle funzioni amministrative, che, per riflesso, avevano somma influenza nella politica, i liberti cesarei , i quali costituivano il consilium privatum del principe.
La cancelleria imperiale era pertanto nelle mani di uomini che, se pure erano abili, competenti e fedeli agli imperatore, erano però anche avidi, invadenti, privi di responsabilità. Mancava all’amministrazione un corpo di funzionari stabile, dalle mansioni ben definite, dotato di organicità e di con-tinuità. Adriano diede all’impero quest’ amministrazione sradicando la mala pianta dei favoriti. A formare la cancelleria imperiale non furono chiamati più i liberti ma pubblici funzionari scelti nell’ordine equestre, con il consenso del Senato, e solo fra coloro che avevano pratica e competenza amministrativa e giuridica.
 
Venne regolato il loro numero, assegnate e specificate nettamente le attribuzioni, stabiliti gli stipendi e la carriera. Ci furono così una segreteria generale formata dagli impiegati a libellis, un ufficio di corrispondenza (ab epistulis), un ufficio di contabilità (a rationibus) il più importante di tutti, uffici minori pel patrimonio, per le acque, per le tasse sull’eredità. Un ufficio nuovo venne creato: l’avvocatura del fisco, inteso a tutelare gli interessi dell’erario imperiale e a decidere nelle controversie tra i contribuenti e il fisco, e vennero istituiti i curatores rerum publicarum che avevano il compito di dare assetto all’amministrazione delle città della penisola mal tenuta dai funzionari del luogo. Questa riforma degli organi centrali dell’amministrazione dello stato diede i suoi frutti: malgrado le finanze non fossero in floride condizioni prima che Adriano salisse all’ impero, malgrado che il condono dei debiti, di cui abbiamo fatto cenno, l’abolizione totale per l’Italia dell’ aurum coronarium e parziale per le province e malgrado infine le enormi spese pubbliche di pubblica utilità e di fasto, il bilancio imperiale mantenne il suo equilibrio.
 
La formazione di questa burocrazia statale diminuì non poco – sebbene a tutta prima non sembrasse – il potere del Senato e fu il primo passo verso la monarchia assoluta. Né l’importanza del consilium principia venne menomata dalla sanzione che il Senato aveva diritto di dare all’assunzione degli impiegati e dalle frequenti e lunghe assenze dell’ imperatore dato che le nomine erano imperiali e a queste non mancava mai la ratifica senatoriale;  durante i suoi viaggi Adriano era di solito accompagnato da alcuni dei suoi funzionari e da quelli che restavano a Roma era quotidianamente informato dell’andamento delle cose, le quali venivano regolate secondo le sue istruzioni.
 
Non meno notevoli delle riforme amministrative furono le riforme giuridiche. All’amministrazione della giustizia Adriano prodigò con intelligenza ed amore le sue cure. Rinnovò il divieto dell’evirazione; tolse ai padroni il diritto di vita e di morte sugli schiavi, stabilì pene severe contro i padroni che si rendevano colpevoli di maltrattamento ai servi, proibì il commercio degli schiavi nei casi in cui offendeva il pudore e le leggi dell’umanità, restrinse la pena di morte agli schiavi che, in caso di uccisione del padrone, erano così vicini a lui da potergli recare aiuto o danno mentre prima venivano condannati alla pena capitale tutti gli schiavi che abitavano nella casa del padrone ucciso; in Italia e nelle province affidò la giustizia a speciali magistrati detti iuridici; si circondò di giureconsulti valenti come Giulio Celso, Nerazio, Prisco e Salvio Giuliano e a quest’ultimo diede incarico nel 131 di raccogliere ed ordinare le leggi del popolo, gli editti dei pretori e i senato-consulti, di farne una scelta e formarne un codice che venne chiamato Edictum perpetitum. Quest’ultimo si ebbe la sanzione del Senato e per molto tempo rimase l’unica raccolta di leggi dell’ impero alle quali soltanto con costituzioni imperiali potevano essere portate aggiunte o modificazioni.
 
Anche l’esercito ebbe le sue riforme e queste furono dettate dall’esperienza militare dell’imperatore e dalle condizioni politiche dello stato.
L’esercito non era più quello di una volta e se Traiano aveva saputo mantenere la disciplina nelle legioni col suo ascendente non aveva però combattute le cause numerose della decadenza militare. Grande era la corruzione dei soldati specialmente di quelli che vivevano in quelle frontiere che nessuna minaccia di guerra turbava. I castra stativa anziché palestre di esercitazioni militari e caserme dove la vita fosse regolata da ferrea disciplina, erano divenuti luoghi di piaceri e di corruzione: industriali accorsi da ogni parte dell’ impero vi avevano portati oggetti di lusso e di mollezze, numerose cortigiane vi erano andate a corrompervi i costumi; grotte artificiali e portici vi erano stati costruiti  per riparare i soldati dalle piogge e dal sole; era scomparsa la disciplina, l’operosità e l’antica austerità.
 
Perché la riforma avesse efficacia egli stesso diede l’esempio nei suoi lunghi viaggi e nelle frequenti ispezioni: rifuggiva dai cocchi, marciava a piedi o a cavallo, sotto la pioggia, tra le nevi o fra i cocenti calori, arringava spesso le truppe, e si intratteneva familiarmente coi soldati rendendosi personalmente conto delle loro condizioni e dei loro bisogni, ostentava grande modestia, non portava abiti ed armature sfarzose e soltanto la spada del comando dall’ impugnatura d’avorio lo distingueva dagli ufficiali. Proibì nei campi la vendita degli oggetti voluttuosi e il soggiorno degli industriali e delle cortigiane, fece demolire le grotte e i portici, ordinò che il lusso scomparisse, che i soldati vivessero frugalmente e si abituassero con giornaliere esercitazioni all’uso delle armi, alle fatiche e alle economie. Né solo a questo si limitò la sua riforma: regolò la ferma e le promozioni, proibì che i soldati con doni comperassero dai tribuni le licenze, nella scelta degli ufficiali fece prevalere i titoli di merito alle simpatie delle truppe, tolse gli abusi, rinsaldò la disciplina, restaurò il rispetto verso i superiori, propose ufficiali probi ed abili agli ospedali ed ai magazzini, ordinò frequenti ispezioni alle armi, ai fossi, alle mura, ai depositi ed emanò appositi ed opportuni regolamenti per l’addestramento. Inoltre incaricò il celebre Apollodoro di scrivere un trattato sulle macchine da guerra, e Apollodoro fu sollecito a servirlo e per giunta disegnò e costruì macchine alle quali apportò sensibili miglioramenti
 
A proposito di Apollodoro – narra Dione Cassio – che avendo Adriano mandato il suo disegno del nuovo tempio di Venere e Roma all’insigne architetto, questi gli facesse osservare argutamente che le due dee erano così alte da spezzare la volta dell’edicio quando avessero voluto alzarsi. Adriano, secondo lo storico su nominato, ferito dallo scherzo di Apollodoro, avrebbe ordinato che fosse messo a morte. Ma il racconto di Dione non trova conferma negli altri storici e noi siamo indotti a crederlo invenzione di Cassio come tutto ciò che il medésimo storico dice della gelosia che l’imperatore nutriva verso i grandi ingegni del suo tempo. Difatti noi sappiamo che sotto Adriano fiorirono ed ebbero onori uomini illustri come Favorino il Gallo, Dionigi di Mileto, Plutarco e Svetonio che furono, l’uno maestro, l’altro segretario di Adriano, Luciano, Tolomeo, Pausania ed Aulo Gellio.
 
Le riforme dell’esercito furono conseguenza della politica estera dell’imperatore. Sebbene valentissimo generale, Adriano voleva seguire la politica di pace di Augusto e di Tiberio. A questa politica forse lo consigliarono le difficili condizioni in cui si trovava l’impero quando egli fu assunto al principato: la rivolta nell’Oriente partico e nella Palestina, il malcontento degli Armeni, l’ incerta situazione in Mauritania, le minacce dei Sarmati e dei Rossolani, il contegno ostile dei montanari della Scozia.
Adriano pensava che l’impero era troppo vasto e che le nuove conquiste di Traiano rappresentavano un serio pericolo per lo stato, specie quelle orientali dove la natura del luogo ed il clima erano un ostacolo insormontabile al dominio di Roma. Egli voleva perciò restringere i confini, munirli di salde difese e presidiarli con un esercito forte e disciplinato per poter rivolgere poi tutte le cure e dare impulso alla prosperità dello stato.
Non fu quella di Adriano una politica del tutto felice. Noi non possiamo in verità biasimarlo per quel che fece per assicurare la sicurezza della Dacia e dell’angolo tra il Danubio e il Reno. Costruì dei muniti fortini agli sbocchi delle valli carpatiche, fondò una piazzaforte a Tresmi, fortificò Figizio, Carmuntum a Vindobona ed altre importantissime fortificazioni condusse tra il Reno e il Danubio. Ma non possiamo approvare quanto lui fece in Oriente, dove cancellò l’opera di Traiano. Questi aveva, creduto di risolvere con le armi la questione armenica e la partica. C’era riuscito in parte e non c’era dubbio che avrebbe rafforzato la sua conquista se non fosse stato logorato dalle fatiche e dagli anni e se la morte non lo avesse colto.
 
Anziché proseguire dietro le orme del suo predecessore e migliorarne l’opera, Adriano riportò il confine dell’ impero all’Eufrate. La questione armenica fu riaperta: l’Armenia, che da Traiano era stata ridotta a provincia, fu di nuovo innalzata a principato sotto il protettorato romano, Adriano non tardò ad accorgersi dell’errore commesso. Liti sorsero tra il nuovo re e Farasmane II, re degli Iberi, che invase e devastò la Media. Le liti furono, è vero, appianate e Farasmane si recò a Roma a far le scuse all’Imperatore, ma l’ Armenia tornava ad essere una causa di perturbamento gravissima.
L’ Assiria e la Mesopotania furono sgombrate, Partamasate fu deposto dal trono partico ed eletto re degli Osroeni. La Partia ritornò sotto Cosroe e a questo venne restituita la figlia.
 
Questa politica non poteva non produrre un grave malcontento nell’aristocrazia provinciale che invece prima aveva applaudito le gesta di Traiano, malcontento al quale non è certamente estranea la congiura che ebbe luogo negli ultimi anni di Adriano.

I viaggi di Adriano

I viaggi di Adriano non furono promossi da irrequietezza di spirito o da desiderio di vedere o godere, ma dalla necessità che l’imperatore sentiva di osservare le condizioni delle province e di provvedere ai loro bisogni e al loro sviluppo. Per la prima volta con Adriano le province non sono considerate come terre di sfruttamento né sono guardate inferiori come importanza rispetto all’Italia, ma richiamano l’attenzione del governo e da questo ricevono attentissime cure. Adriano trascorse nelle province circa tre lustri del suo impero, in qualcuna di esse fece lungo soggiorno, in tutte ne fece oggetto della sua attenzione, arricchendole di città e di monumenti, munendole di difese alle frontiere, promovendovi l’industria e il commercio, migliorandone la viabilità e regolandone l’amministrazione.
 
È ancora incerta, malgrado le molte e pazienti ricerche degli eruditi, la cronologia dei viaggi d’Adriano e le date che noi riferiamo sono approssimative, ma più che le date hanno importanza i risultati del lungo peregrinare dell’ imperatore. I suoi viaggi hanno forse inizio un anno dopo del suo ritorno a Roma dall’Oriente. Egli cominciò col visitare la Gallia, dove fu, come pare, nel 119. La romanizzazione delle tre province galliche era molto avanzata, il druidismo era stato quasi debellato, vi era diffuso il paganesimo e vi faceva la comparsa anche il Cristianesimo; estesa era la rete stradale, di molta sicurezza godevano le campagne, grandi città ricche di templi, di teatri, di biblioteche, di bagni, di scuole, vi sorgevano, vi fiorivano industrie ed attivi erano i commerci. La Gallia si sentiva oramai strettamente legata alla vita dell’ impero, cui forniva ottimi soldati, eccellenti generali e un patriziato sollecito della prosperità dello Stato. Essa era inoltre sicura dalle incursioni barbariche per gli imponenti lavori di difesa ch’erano stati compiuti tra il Reno e il Danubio (limes agrorum decumatum).
 
La gratitudine per quanto Adriano aveva fatto per le tre province, la espressero all’ imperatore i rappresentanti di esse convenuti a Lugdunum e venne coniata una medaglia dedicata al restauratore della Gallia (Restitutori Galliae), che doveva esser la prima di una serie di medaglie in onore dell’imperatore fatte dalle altre province con lo stesso motto. Dalla Gallia Adriano si recò nella Germania superiore e nell’ inferiore, dove diede impulso alle fortificazioni di frontiera e provvide alla disciplina delle legioni e all’ ingrandimento e alla sicurezza dei campi militari; poi passò nella Britannia, nella quale, dopo Claudio, forse nessun imperatore romano era stato. La provincia cominciava a romanizzarsi e con lo sfruttamento delle miniere di stagno, rame ed argento e l’esportazione di parecchi prodotti locali prometteva di non essere ancor per lungo tempo passiva, ma nella parte settentrionale continuava ad essere esposta alle incursioni dei Caledoni che vi avevano sterminata una legione (la IX). Adriano, seguendo la sua politica di difesa, ordinò una linea di sbarramento munita di trincee e fortini e dotata di strade che dalla foce del Tyne doveva andare alla baia di Soiway. I lavori dell’ importante linea, di cui ancora oggi rimangono notevoli avanzi, e che si ebbe a nome di Vallum Hadriani, furono cominciati nel 122 e terminati nel 124.
 
Dalla Britannia l’imperatore, attraversando la Gallia, passò nella Spagna, la quale delle province romane di Occidente era forse la più fiorente. Molte città belle e grandi  vi sorgevano e i costumi degli antichi popoli iberici avevano ceduto il posto alle costumanze romane; la lingua di Roma vi era perfettamente parlata, scuole importanti vi erano state istituite, strade ampie e sicure mettevano in comunicazione le vane città della penisola e questa con la Gallia; sviluppata era l’agricoltura e l’olio, il vino e i cerali venivano esportati nelle altre regioni dell’ impero; oltremodo redditizia era l’industria mineraria. In Spagna Adriano non riusci fermarsi a lungo. Si trovava a Tarracona, forse nell’inverno del 123, quando un’ insurrezione scoppiata nella Mauritama lo costrinse a passare in Africa. La sua presenza valse a quietare questa regione occidentale africana, la quale resisteva ancora tenacemente alla penetrazione delle armi e della civiltà romana. Anche qui l’imperatore dovette prendere provvedimenti per la difesa militare e dopo un’offensiva verso l’Atlante iniziò la costruzione di un vallum. Inoltre trasferì i quartieri della Legione III Augusta a Lambese, dove più tardi troveremo l’infaticabile Adriano.
 
Dalla Mauritania, forse per mare e facendo delle soste nelle città della costa, si recò in Egitto donde passò in Oriente. Ve lo chiamava il contegno di Cosroe che faceva preparativi di guerra. Adriano ebbe un convegno con il re dei Parti, gli restituì la figlia e, allontanato il pericolo di un conflitto, fu in grado di andare nelle altre province asiatiche che, per avervi a lungo soggiornato, conosceva molto bene, e dove, malgrado il numero non indifferente dei coloni e dei mercanti italici, la civiltà manteneva sempre il suo aspetto orientale.
 
Più che altrove, in questo suo primo viaggio in Oriente, Adriano si trattenne nell’Asia Minore. Pochi paesi potevano competere con l’Asia minore per ricchezza. Nell’interno splendide foreste, fertili campi di biade, immensi armenti; mentre il legname e le lane, frigie e galate, erano oggetto di un largo commercio di esportazione.
Sulla costa meridionale e occidentale, dalla Cilicia all’Ellesponto, numerose e prosperose le città e le industrie, in primo luogo le tessiture: che nel vasto impero ormai tutto aperto al commercio queste industrie avevano trovato nuovi e ricchi clienti, cosicché si erano sviluppate anche in alcuni paesi dell’interno, ad esempio nella Cappadocia,  per opera dell’elemento semitico.
Strano paese insomma, in cui l’ellenismo si era incrostato sulla varietà delle tradizioni e dei costumi nazionali, e ove il romanesimo veniva ad aggiungersi all’ellenismo. Nell’ insieme però l’Asia Minore, sotto la vernice della grecità, era rimasta orientale. La sua letteratura era improntata alla fantasiosità, alla mollezza, alla verbosità, alla leggerezza asiatica; la religione era una caotica mescolanza di mitologia ellenica, di culti egizio-fenici, giudaici, cristiani, nonché di culti prettamente asiatici, come quello di Mitra, di Cibele, di Attis. In queste province Adriano soggiornò parecchi mesi, ma vi sarebbe tornato altre volte per un più lungo soggiorno; ed ogni luogo avrebbe serbato la traccia del suo paesaggio: città demolite dai terremoti, resuscitate dalle rovine; città bisognose o modeste, soccorse o abbellite; grandi porti, strade, monumenti di pubblica utilità costruiti con il suo aiuto o per suo consiglio e incitamento.
 
Dall’Asia l’imperatore ritornò in Grecia, la provincia che tanto amore e tanta venerazione gli ispirava, ma che dall’antica grandezza era miseramente decaduta. Visitata la Tracia, la Macedonia, Epiro e la Tessaglia, nell’estate del 126 si recò ad Atene, centro ancora fiorentissimo di studi. Dopo Roma forse la Grecia ebbe da lui le maggiori cure.
 
Corinto, rapidamente rifiorita sulla vecchia città distrutta, divenne la principale città greca; sì arricchì di bagni, di una magnifica via militare che attraversava l’istmo e di un acquedotto che trasportava l’acqua del lago Stymphalos. Nomea fu dotata di un ippodromo, Mantinea di un superbo tempio a Nettuno. Ad Argo offrì un pavone d’oro che venne collocato nel tempio di Giunone e rimise in vigore le corse equestri dei giuochi Nemei. Ma ad Atene, dove visse più a lungo e dove forse più di una volta si recò, venne nominato cittadino ed arconte e lo vide per le sue vie in abito greco discorrere coi filosofi e con gli artisti. Adriano di suo dedicò le cure più grandi e più amorose alla città. Condusse a termine il tempio di Giove Olimpico cominciato più di sei secoli prima, e sul piano dell’Ilisso fece costruire un nuovo, grande quartiere, diviso dalla vecchia città da un superbo arco trionfale che da un lato portava nell’architrave la scritta : «Questa è Atene, l’antica città di Teseo» e dall’altro: «Questa è la città di Adriano». Questo quartiere fu dotato di pregevoli monumenti dovuti all’ingegno di Erode Attico, fra cui degni di menzione il tempio della Fortuna con portici e biblioteca, un ginnasio sorretto da cento colonne e un tempio magnifico – il Panthellenion – presso cui dovevano celebrarsi le feste nazionali dei Greci. Un’altra città, che presto prese grande sviluppo, fu fondata nella Tracia che dall’imperatore prese il nome di Adrianopoli.
 
Tornato a Roma verso la fine del 126, vi si trattenne fino all’estate del 128. In questo soggiorno nella metropoli dell’ impero egli abbellì Roma di grandiosi monumenti: costruì il tempio di Venere e Roma al quale abbiamo accennato, presso l’anfiteatro Plavio, arricchì di edifici il Foro Traiano; oltre il Tevere, di là dal ponte Elio, innalzò il suo Mausoleo (Mole Adriana), rivestita di marmo pario e coronata di statue, giunta fino a noi col nome di Castel S. Angelo; sul Campidoglio fondò l’Ateneo dove pubblicamente dovevano essere insegnate la filosofia, la retorica e la giurisprudenza, e presso Tivoli edificò una villa grandiosa, dentro la quale fece riprodurre i più bei monumenti ammirati nei suoi viaggi, come il Liceo, l’Accademia, il Pritaneo e il Pecile di Atene, e raccolse le migliori opere d’arte della Grecia e dell’Oriente.
 
Nell’estate del 128 Adriano si rimise in viaggio. Nel luglio di quest’anno lo ritroviamo in Mauritania ad arringare i soldati di Lambese, poi in Grecia e infine in Asia. Visitando la Siria, si spinse fino a Palmira, la città del deserto, che dotò di importanti edifici ed elevò al grado di colonia, poi scese nella provincia d’Arabia fino a Petra che in onore dell’imperatore prese il suo nome. In quella estrema provincia fece costruire strade che l’allacciarono meglio con la Siria, la Palestina e l’Egitto.
L’ Egitto fu visitato dopo l’Arabia: vi entrò da Pelusio e, dopo avere risalito il Nilo, si diresse ad Alessandria (131). Conduceva con sé un giovane di Claudiopoli, nella Bitinta, di nome Antinoo, bellissimo di viso e di forme di cui l’imperatore si era invaghito. Antinoo, durante quel viaggio, per caso o volontariamente, durante un bagno perì nelle acque del Nilo, e l’imperatore in memoria di lui fece ricostruire il villaggio di Bese cui pose il nome di Antinoopoli, gli eresse una magnifico tempio e istituì un nuovo culto in onore dell’amico.
 
Negli ultimi mesi del 131 Adriano fece ritorno a Roma, dove consacrò il tempio di Venere e Roma e fece approvare dal Senato l’ Editto perpetuo. L’ anno seguente una nuova ribellione scoppiò in Palestina. Questa già covava da tempo, fin dalla morte di Traiano. Nei primi anni dell’ impero di Adriano un moto insurrezionale, di cui abbiamo fatto cenno, aveva avuto luogo: era stato presto soffocato, ma gli ebrei non si erano rassegnati alla perdita dell’indipendenza e le scuole rabbiniche, sorte nelle minori città della Giudea, tenevano desti gli spiriti. Per mettere termine alle agitazioni Adriano istituì a Gerusalemme una «colonia militare cui diede il nome di Elia Capitolina e la distrutta città la fece risorgere con edifici di stile greco-romano e con templi pagani; sul luogo dove sorgeva il famoso tempio di Jehova fece innalzare un tempio a Giove Capitolino.
 
Questa costruzione che offendeva il sentimento nazionale e religioso degli ebrei fece divampare la rivolta in tutta la Giudea nell’anno 132. Il gran rabbino Akiba mise alla testa della rivolta un giovane audace e fanatico, Bar Kokeba, (figlio della stella) che venne considerato come l’atteso Messia. In breve tutta la Giudea fu in fiamme: il legato Q. Tineo Rufo tentò di domare la rivolta, ma venne sconfitto; la stessa sorte ebbero altri due generali romani. Adriano corse in Palestina e mise a capo dell’ esercito il più valoroso generale del tempo, Sesto Giulio Severo, che si era distinto nelle guerre di Britannia. Ma quello di Severo non fu compito facile; i ribelli, che si erano resi padroni della Samaria e dell’ Idumea, resistettero accanitamente e fu necessario ai Romani prolungare la lotta fino al 136 per avere ragione della rivolta. Fu in quest’anno che essa venne finalmente domata. La fortezza di Bethar cadde per ultima e con le armi nel pugno vi trovò la morte Bar Kokeba. Questa guerra costò perdite enormi ai ribelli: cinquanta fortezze furono espugnate e novecentottantacinque paesi distrutti; oltre seicentomila combattenti vennero uccisi; i superstiti vennero venduti come schiavi e i capi della ribellione, specie i rabbini, furono mandati al supplizio. Gli ebrei non, ebbero più la loro patria e la città santa della loro religione.

Gli ultimi anni

AdrianoNel 135 Adriano fece ritorno a Roma e non si mosse più. La sua vita volgeva al tramonto dopo tanta attività. Allora l’imperatore pensò alla successione e fra i tanti che aspiravano all’ impero scelse un suo favorito, L. Cejonio Commodo Vero, di cui sappiamo che era di costumi corrotti e malaticcio. Quattrocento milioni dì sesterzi, spesi in donativi ai soldati e al popolo, gli costò quell’adozione che, a quanto pare, non riscosse il plauso di molti. Cejonio fu mandato in Pannonia a comandarvi le legioni e vi morì il 1° gennaio del 138.
La morte di Cejonio fu un bene per l’impero e venne accolta con gioia da molti, specialmente dai senatori che negli ultimi anni dell’imperatore avevano cominciato ad odiarlo. Causa di quest’ iodio erano stati i pretendenti al trono e alcune cospirazioni che avevano dato origine a severe condanne date senza il consenso del Senato. Fra i pretendenti era un cognato di Adriano, di venti anni più vecchio di lui, di nome Lucio Giulio Serviano, il quale, sospettato di congiura dopo l’adozione di Cejonio, era stato mandato a morte insieme col diciottenne nipote Fusco. Anche il prefetto della città Catilio Severo aveva cospirato ed era stato destituito.
Morto Cejonio, Adriano cercò un altro successore e adottò Tito Aurelio Fulvio Antonino (26 febbraio del 138) che mutò il nome in quello dì Tito Elio Antonino e si ebbe la potestà tribunizia e l’impero preconsolare.
Non avendo questi alcun figlio gli ordinò che adottasse a sua volta L. Vero, figlio del defunto Cejonio, e Marco Vero, nipote di Antonino, diciassettenne.
Furono questi gli ultimi atti dell’imperatore. Il male che da tempo tormentava Adriano (l’idropisia) si andava facendo sempre più grave. Vane riuscirono le cure ed erano tante le sofferenze procurate dalla malattia che più volte l’imperatore cercò di porre fine ai suoi giorni. Si sparse la voce che i tormenti da cui vennero afflitti gli ultimi anni di Adriano fossero prodotti da una terribile maledizione pronunziata da Giulio Serviano. Le cure valsero sempre meno. A liberare il grande imperatore dalle sofferenze fu la morte che lo colse a Baja il 10 luglio del 138.

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