Candido (Voltaire)

VoltaireLa celebre opera di Voltaire non può non essere consigliata alla lettura per tutti. Nell’opera si coglie una forte critica della società contemporanea allo scrittore stesso.
Non bastano al protagonista dell’ opera, Candido, le belle parole del maestro, "questo mondo è l’ottimo dei mondi possibili" a sconfiggere la dura realtà costellata di pene corporali, assassini, furti, stupri, torture, corruzione, schiavitù, brutalità. Non si salvano dalla malvagità né mussulmani, né cristiani, né inetti briganti né illuminati statisti.
Non mi stancherò mai di chiedervi di leggere queste opere che oltre a travalicare il tempo rendono il nostro pensiero più maturo, più consapevole, più libero.

 

 

Candido, giovane allievo del filosofo ottimista Pangloss, vive in un castello della Vestfalia, crede candidamente nella bellezza e perfezione del mondo, e passa perciò da una sciagura all’altra.
Cacciato dal castello per aver soddisfatto un desiderio d’amore con la figlia del barone, Cunegonda, è arruolato a forza. Dopo una rovinosa battaglia è ridotto mendico ed è raccolto da un pietoso anabattista; incontra poi il maestro Pangloss, deabilitato dalla sifilide, il quale gli racconta come il castello sia stato distrutto dai nemici, e Cunegonda violata e uccisa.Conduce poi Pangloss a casa dell’anabattista, che lo fa curare e guarire.Quindi s’imbarcano tutti e tre per Lisbona, ma dinanzi alla capitale portoghese una burrasca fa naufragare la nave: il buon anabattista vi muore; Candido, Pangloss e un perfido marinaio, che era stato causa della morte dell’anabattista, giungono a terra poco prima del violentissimo terremoto che distrugge la città. Fra le rovine, Pangloss dimostra la sua inalterabile fiducia ottimistica, ma è ascoltato da una spia dell’Inquisizione (il tribunale ecclesiastico che puniva gli eretici e gli insani di mente) e viene arrestato insieme a Candido. Pangloss viene impiccato, Candido se la cava con una fustigazione.
Poi una vecchia lo conduce da Cunegonda, che s’era salvata, era stata venduta schiava, e ora ha due padroni di cui è l’amante: un ebreo e il Grande inquisitore. Candido, senza volerlo, li uccide entrambe e fugge con Cunegonda e la vecchia fino in Argentina. Non appena sbarcati, Candido deve abbandonare Cunegonda, poiché le guardie spagnole sono sulle sue tracce e vogliono arrestare l’uccisore dell’Inquisitore; si rifugia allora presso i gesuiti del Paraguay.
 In questa fuga e accompagnato da un ottimo servo, figlio di un meticcio e di un’indiana, Cacambò. Arrivato fra i Gesuiti, Candido vi ritrova il fratello di Cunegonda, gliene chiede la mano ma riceve una piattonata in faccia: esasperato, l’uccide.Travestito da gesuita, scappa presso i selvaggi Orecchioni quali per poco non lo mangiano, scambiandolo per un gesuita autentico. Poi passa con Cacambò in un paese meraviglioso, l’Eldoradi, in cui l’oro è disprezzato, tutto è gratuito, la religione è amore, tutti sono preti, perché tutti onorano Dio; né esistono prigioni, e il re li riceve con semplice cortesia. Tuttavia non restano all’Eldorado: vogliono trasportare un po’ d’oro nei loro paesi, e godere così di gran ricchezza. E se ne vanno portando in dono una quantità di pecore cariche d’oro. Ma ne perdono parecchie durante il difficile viaggio, e giungono a Surinam soltanto con due pecore.
I due si separano, Cacambò ritorna a Buenos Aires per recuperare Cunegonda, mentre Candido si dirige a Venezia. Arrivato, dopo altre avventure, a Venezia, vi trova Cacambò, con il quale parte con Costantinopoli, dove Cunegonda si trova nuovamente schiava, ormai brutta e invecchiata. Sulla galera due forzati assomigliano stranamente a Pangloss e al fratello di Cunegonda: per uno straordinario percorso di avvenimenti non erano morti, e Candido subito li riscatta. Quindi trovano, in Propontide, Cunegonda e la vecchia, e le liberano. Candido, ridivenuto povero, s’adatta a sposare la brutta e scorbutica Cunegonda, e con gli altri vive una vita senza illusioni in una piccola masseria: il lavoro di tutti fa fruttare il terreno, ciascuno esercita i propri talenti, filosofando e ragionando il meno possibile, e coltivando il proprio giardino.

Tratto dall’inizio dell’opera (Capitolo I)

Era nella Vesfalia, nel castello del barone di Thunder-ten-tronckh, un giovinetto che aveva avuto dalla natura i più dolci costumi. Gli si leggeva il cuore nel volto. Univa egli a un giudizio molto assestato una gran semplicità d’animo, per la qual cosa, cred’io, lo chiamavano Candido. I vecchi servitori di casa sospettavano ch’egli fosse figliuolo della sorella del signor barone e d’un buon gentiluomo, e da bene, di quel contorno, che questa signora non volle mai indursi a sposare perchè non aveva egli potuto provare più di settantun quarti di nobiltà, essendo il resto del suo albero genealogico perito per l’ingiuria de’ tempi. Era il signor barone uno dei più potenti signori della Vesfalia, perchè il suo castello aveva porta e finestre; e di più sala con arazzi. Tutti i cani dei suoi cortili componevano in caso di bisogno una muta di caccia; i suoi staffieri erano i suoi cacciatori, e il piovano del villaggio il suo grande elemosiniere.

    Gli davan tutti dell’Eccellenza, e ridevano quando raccontava delle novelle. La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, si attirava per questo un grandissimo riguardo, e faceva gli onori della casa con una dignità che la rendeva ancor più rispettabile. La di lei figlia Cunegonda, in età di diciassett’anni, era ben colorita, fresca, grassotta, da far gola. Il figlio del barone si mostrava tutto degno germe di suo padre.

    Il precettore Pangloss era l’oracolo di casa, e il giovanetto Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede dell’età sua e del suo carattere. Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-nigologia. Provava egli a maraviglia che non si dà effetto senza causa, e che in questo mondo, l’ottimo dei possibili, il castello di S. E. il barone era il più bello dei castelli, e Madama la migliore di tutte le baronesse immaginabili.

    – È dimostrato – diceva egli – che le cose non posson essere altrimenti; perchè il tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente per l’ottimo fine. Osservate bene che il naso è fatto per portar gli occhiali, e così si portano gli occhiali; le gambe sono fatte visibilmente per esser calzate, e noi abbiamo delle calze; le pietre sono state formate per tagliarle e farne dei castelli, e così S. E. ha un bellissimo castello; il più grande dei baroni della provincia dev’essere il meglio alloggiato, e i maiali essendo fatti per mangiarli, si mangia del porco tutto l’anno. Per conseguenza quelli che hanno avanzata la proposizione che tutto è bene hanno detto una corbelleria, bisognava dire che tutto è l’ottimo. – Candido ascoltava attentamente, e innocentemente credeva ad ogni cosa; perché egli trovava Cunegonda bella all’estremo, sebbene non avesse mai avuto l’ardire di dirglielo. Egli concludeva che dopo la fortuna di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era di essere Cunegonda, il terzo di vederla tutti i giorni, il quarto di ascoltare il precettore Pangloss, il più gran filosofo della provincia, e in conseguenza del mondo.

    Un giorno Cunegonda, passeggiando presso il castello in un boschetto cui si dava il nome di parco, vide tramezzo alle fratte il dottor Pangloss che dava una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, vezzosa brunetta e docilissima. Cunegonda se ne tornò tutta agitata e pensosa, pensando a Candido. L’incontrò ella nel ritornare al castello, e arrossì; Candido arrossì anch’egli; ella gli diede il buon giorno con una voce interrotta, e Candido le parlò senza sapere quel che dicesse. Il giorno dopo nell’uscir da pranzo, Cunegonda e Candido si trovarono dietro a un paravento, Cunegonda si lasciò cascare il fazzoletto, Candido lo raccattò; ella gli prese innocentemente la mano, egli innocentemente la baciò, con una vivacità, con un trasporto, con una grazia particolarissima; le loro bocche s’incontrarono e gli sguardi si fecero ardenti, le loro ginocchia caddero e le mani si strinsero.

    Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto al paravento, e vedendo questa causa e questo effetto, cacciò via Candido dal castello a pedate. Cunegonda svenne, fu schiaffeggiata dalla baronessa appena rinvenuta che fu, ed ogni cosa fu sottosopra nel più bello e nel più delizioso di tutti i castelli possibili.

Voltaire Cenni biografici

Voltaire Pseudonimo di François-Marie Arouet (Parigi 1694-1778), scrittore e filosofo francese, uno dei massimi esponenti dell’illuminismo. Figlio di un notaio, studiò presso i gesuiti del collegio Louis-le-Grand.

Voltaire scelse ben presto di dedicarsi alla carriera letteraria. Cominciò a frequentare i circoli aristocratici e in breve tempo la fama della sua intelligenza brillante e sarcastica si diffuse nei salon parigini. A causa di alcuni suoi scritti, in particolare di una satira all’indirizzo di Filippo II duca d’Orléans, fu rinchiuso nella prigione della Bastiglia per undici mesi, durante i quali completò la sua prima tragedia, Edipo, ispirata all’Edipo re di Sofocle, e iniziò un poema epico su Enrico IV di Francia, La lega, o Enrico il Grande, che nel 1728 fu ampliato e ribattezzato Henriade. L’Edipo fu rappresentato per la prima volta nel 1718 con grande successo. Nel suo primo poema filosofico, Il pro e il contro, Voltaire diede eloquente espressione alle proprie convinzioni anticlericali e al proprio credo razionalista e deista.
Nell’aprile 1726, una lite con un membro di un’illustre famiglia francese, il cavaliere di Rohan, costò al filosofo una seconda incarcerazione, cui poté porre termine due settimane più tardi con l’impegno a lasciare la Francia e stabilirsi in Inghilterra. A Londra trascorse quasi tre anni, impadronendosi con straordinaria rapidità della lingua inglese, nella quale scrisse due trattati di notevole pregio, uno sulla poesia epica e l’altro sulla storia delle guerre civili in Francia. Stampata a Londra nel 1728, l’edizione ampliata del poema giovanile su Enrico IV, Henriade, brillante difesa della tolleranza religiosa, ottenne un successo senza precedenti non solo in Francia ma nell’intero continente europeo.

Nel 1729 Voltaire tornò in Francia, e durante i quattro anni successivi risiedette a Parigi. Una serie di fortunate speculazioni economiche gli consentì di dedicare la maggior parte del tempo all’attività letteraria. Grande fu il successo teatrale di Zaira (1732), ma l’opera più significativa di questo periodo, ispirata dalla frequentazione di Alexander Pope, Jonathan Swift, William Congreve e Horace Walpole durante la parentesi inglese, è Lettere filosofiche o Lettere sugli inglesi (pubblicate in inglese nel 1733 e in francese nel 1734), manifesto dell’illuminismo e pertanto motivato e a tratti violento attacco alle istituzioni politiche ed ecclesiastiche francesi. Lo scandalo fu enorme, almeno quanto il successo, e di nuovo pose Voltaire in conflitto con le autorità, costringendolo ad abbandonare Parigi e a rifugiarsi nel castello di Cirey nel ducato indipendente della Lorena.
Questo periodo coincise con una febbrile attività letteraria. Oltre a un ingente numero di lavori teatrali, Voltaire scrisse parecchi testi di divulgazione scientifica, come gli Elementi della filosofia di Newton (1738), oltre a romanzi, racconti, satire e versi nei quali la forza polemica e la vivacità del dibattito intellettuale sopraffanno ogni intento artistico.
Il soggiorno a Cirey fu spesso interrotto da viaggi a Parigi e Versailles, dove, grazie all’influenza della marchesa di Pompadour, amante di Luigi XV, Voltaire divenne uno dei favoriti di corte. Dapprima fu nominato storiografo di Francia e nel 1746 fu eletto all’Académie Française. Da questo sodalizio con la corte di Luigi XV nacquero opere come il Poema di Fontenoy (1745) e il Secolo di Luigi XV, oltre ai drammi La principessa di Navarra e Il trionfo di Traiano. Del 1748 è Zadig, brillante romanzo satirico.
Nel 1749 accettò un invito rivoltogli tempo addietro da Federico II di Prussia a trasferirsi alla sua corte. Il soggiorno a Berlino non durò più di due anni, poiché lo spirito caustico del filosofo mal si conciliava con il temperamento del sovrano e più volte diede origine ad accese dispute. Durante il periodo berlinese Voltaire completò lo studio storico intitolato Il secolo di Luigi XIV (1751) e il racconto filosofico Micromega (1752).

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