Una notte nel mio piccolo letto
– quello per cui lasciai, bimbo, la culla –
avvolto nel lenzuolo un poco stretto
io dormivo scomposto come agogno
dormire adesso, sospeso nel nulla
quasi opalino d'un trepido sogno.
O mamma, che sognava il tuo figliolo?
Dolci paesi e dolci cose o forse
io non sognavo: respiravo solo.
D'un tratto mi destai chiamando: «Diva!».
Ed ella era su me, calda: mi morse,
mi bagnò tutto il volto di saliva.
Mi morse ancora, non so dove, come;
mi capovolse, mi graffiò ruggente;
e mi chiamò, ma non disse il mio nome:
«Augusto» disse e chiamò anche «Edmondo»;
ed io chiuso in quel cerchio, avidamente,
sbarravo gli occhi nel buio profondo.
O Diva; o Diva, io ti baciai, ti resi
i tristi baci, a te mi strinsi, a te
mi avvinsi, a te chiesi la vita, chiesi
la gioia, la pietà, la conoscenza
e non so quali inutili perché,
chiesi di te, di me, dell'esistenza:
o Diva, o Diva, entrai quasi bambino,
quasi inerme nel tuo vortice, quasi
uomo ti soffocai col mio cuscino,
o Diva, Diva, ora lo so che insieme
godemmo il vizio, insieme fummo invasi
dalla tristezza che sui sensi preme:
e tu «Edmondo» mi chiamasti ancora,
«Augusto, Raoul» mi dicesti, e io fui
non più il figliolo della pia signora,
non lo scolaro timido, ma lui;
e forse non Edmondo o Augusto: altrui.
Marino Moretti (1885-1979)