Le soprascarpe della felicità (Hans Christian Andersen)

{mosimage}Un tema caro ad Andersen è quello dei vestiti magici. Questa fiaba composta da 6 brevi racconti ne è un esempio. In Le soprascarpe della felicità due fate chiacchierano fra loro, con quel tratto domestico che Andersen riesce a costruire intorno a personaggi e situazioni non appartenenti alla tipica sfera umana, ed una di loro, ancella della fata della felicità, confida all’altra, con un delizioso salto logico : "Oggi è il mio compleanno e per festeggiare mi è stato consegnato un paio di soprascarpe da dare agli uomini. Esse hanno la proprietà di trasferire immediatamente chi le indossa nel luogo e nell’epoca preferiti". Ottima fiaba da leggere a tutti, grandi e piccini.

 

1. L’inizio

A Copenaghen, in Østergade, in una casa non lontano da Kongensnytorv, c’era una grande festa; ogni tanto bisogna farle, così non ci si pensa più e si viene invitati dagli altri. Metà degli ospiti era già seduta ai tavoli da gioco, l’altra metà aspettava che la padrona di casa dicesse: "Adesso dobbiamo trovare qualcosa da fare!". Si stava lì e la conversazione proseguiva in qualche modo. Tra l’altro il discorso era caduto sul Medioevo; alcuni lo consideravano un’epoca migliore della nostra; quando il consigliere Knap sostenne con forza questa opinione, subito anche la padrona di casa fu d’accordo e entrambi parlarono male di quello che Ørsted aveva scritto nell’"Almanacco dei tempi vecchi e nuovi", in cui il nostro periodo era presentato come il migliore. Il consigliere considerava il tempo di re Giovanni come il più delizioso e il più felice.
Mentre tutti continuano a chiacchierare a favore o contro interrotti soltanto un attimo dall’arrivo del giornale nel quale non si trovò però nulla che valesse la pena di leggere, noi usciamo nell’anticamera, dove si trovavano i soprabiti, i bastoni, gli ombrelli e le soprascarpe. Vi si trovavano anche una donna giovane e una anziana; si poteva pensare che fossero giunte al seguito di una signora, o di una signorina o di una vedova, ma guardandole più attentamente si capiva subito che non erano normali cameriere, perché avevano le mani troppo ben curate, portamento e gesti troppo regali e anche i vestiti erano di taglio curato e originale. Erano in realtà due fate: la più giovane non era proprio la fata della felicità, ma una delle cameriere delle sue damigelle, e doveva distribuire i doni minori della felicità; quella più anziana invece che sembrava molto seria, era il dolore, e andava sempre di persona a compiere le sue missioni, così era sicura che venissero eseguite.
Si raccontavano che cosa avevano fatto quel giorno. La cameriera di una delle damigelle della felicità, aveva compiuto soltanto missioni insignificanti: raccontava di aver salvato un cappello nuovo da un acquazzone, di aver procurato a una persona importante il saluto di una nobile nullità o qualcosa di simile; ma quello che le mancava era una cosa veramente straordinaria.
«Devo aggiungere» disse «che oggi è il mio compleanno e in dono mi sono state date soprascarpe che devo dare all’umanità. Hanno la facoltà di portare in un attimo colui che le indossa nel luogo e nel tempo che preferisce, e qualunque desiderio riguardante il periodo o il luogo viene immediatamente esaudito; per una volta almeno quell’uomo sarà felice.»
«Sì, lo credi tu!» disse il dolore «sarà sicuramente infelice e benedirà il momento in cui si libererà di quelle soprascarpe!»
«Che cosa vuoi dire?» chiese l’altra. «Ora le metto qui vicino alla porta, chi calzerà queste al posto delle sue sarà felice.»
Questa fu la loro conversazione.

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2. Che cosa capitò al consigliere

Era tardi; il consigliere Knap, sprofondato col pensiero nel tempo di re Giovanni, volle andare a casa e fu proprio lui che al posto delle sue soprascarpe si mise quelle della felicità, e con quelle uscì in Østergade; ma dalla forza magica di quelle soprascarpe venne trasportato indietro nel periodo di re Giovanni, e si trovò con i piedi immersi nel fango e nella poltiglia della strada, dato che in quei tempi non avevano ancora l’asfalto.
«È terribile il sudiciume che c’è qui!» esclamò il consigliere. «Il marciapiede è sparito e tutti i lampioni sono spenti!»
La luna non era ancora alta nel cielo, l’aria poi era molto pesante, tutt’intorno era buio. All’angolo più vicino c’era però appesa una lucina, proprio davanti all’immagine di una Madonna, ma quella luce serviva a poco, e lui la notò soltanto quando vi si trovò proprio davanti, e lo sguardo gli cadde su quell’immagine dipinta della Madre col Bambino.
"Forse è lo studio di qualche artista" pensò "e si sono dimenticati di ritirare l’insegna."
Della gente vestita secondo le usanze del tempo gli passò davanti.
"Accidenti come sono vestiti! Vengono sicuramente da una festa mascherata!"
Improvvisamente si sentirono tamburi e pifferi, intense torce luccicarono, il consigliere si fermò e vide passare uno stranissimo corteo. Davanti a tutti c’era una truppa di suonatori di tamburo, che sapevano usare proprio bene il loro strumento, dietro di loro seguivano soldati con archi e balestre. La persona più importante del corteo era un uomo di chiesa. Sorpreso, il consigliere chiese che cosa significasse quel corteo e chi fosse quell’uomo.
«È il vescovo della Selandia» gli risposero.
«Oh, Signore, che cosa è successo al vescovo!» sospirò il consigliere scuotendo la testa: non poteva certo essere il vescovo!
Continuando a pensare e senza guardare né a destra né a sinistra, il consigliere si incamminò lungo Østergade fino alla Piazza del Ponte Alto. Il ponte che porta al castello non riuscì a trovarlo, si trovò su un lato di un fiumiciattolo e alla fine vide due persone con una barca.
«Il signore vuole essere trasportato all’isola?» chiesero.
«All’isola?» esclamò il consigliere, che naturalmente non sapeva in quale periodo si trovasse. «Voglio andare a Christianshavn, in Torvegade!»
Quei due lo osservarono.
«Ditemi semplicemente dove si trova il ponte» chiese lui. «È uno scandalo che non ci sia acceso nessun lampione, e poi c’è un tale pantano che sembra di essere in una palude!»
Quanto più parlava con quegli uomini della barca, tanto più questi gli diventavano incomprensibili.
«Non capisco il vostro dialetto di Bornholm!» disse infine arrabbiandosi, e voltò loro le spalle. Il ponte però non lo trovò e neppure un parapetto! "È uno scandalo! Tutto è in uno stato!" si disse. Non aveva mai trovato il tempo in cui viveva misero come quella sera.
"Credo che prenderò una carrozza!" pensò, ma dov’erano le carrozze? Non se ne vedeva nessuna. "Tornerò indietro a Kongensnvtorv, là ci saranno certamente delle carrozze ferme; altrimenti non arriverò mai a Christianshavn!"
S’incamminò verso Østergade e era quasi arrivato, quando apparve la luna.
"Oh, Signore! Che cos’è quell’impalcatura che hanno montato?" si chiese guardando Østerport che in quel tempo aveva una porta proprio in fondo a Østergade.
Alla fine trovò un cancelletto e lo attraversò giungendo alla nostra Nytorv, ma allora era una grande distesa di erba: vi spuntava qualche singolo cespuglio e di traverso passava un largo canale o un fiumiciattolo. Vi si trovavano orribili catapecchie di legno fatte per i marinai di Halland, che avevano dato il nome a quel corso d’acqua, proprio sul lato opposto del fiumiciattolo.
"O questa è la Fata Morgana, come si dice, o io sono ubriaco!" si lamentò il consigliere. "Ma che cos’era quello? Ma che roba era?"
Tornò indietro con la convinzione di essere malato, ma prima di rientrare nella strada guardò con più attenzione quelle case: la maggior parte aveva travi esterne e molte avevano il tetto di paglia.
"No, non sto proprio bene!" sospirò. "Ho bevuto solo un bicchiere di punch, ma non lo sopporto. E poi è stata proprio una brutta idea darci il punch insieme al salmone caldo; devo dirlo alla padrona di casa. Dovrei tornare indietro e far sapere loro come sto. Ma che vergogna! Chissà se sono ancora svegli?"
Cercò la casa, ma non la trovò.
"È terribile, non riconosco più Østergade! Non c’è nemmeno un negozio. Io vedo misere e vecchie catapecchie come se mi trovassi a Roskilde o a Ringsted. Ah, sono malato! Ma non serve a nulla vergognarsi. Dove diavolo è finita la casa di quella gente? Non è più la stessa. Ma là dentro ci sono delle persone, oh, sono certamente malato!"
Si trovò vicino a una porta socchiusa da cui usciva la luce. Era una locanda di quel tempo, una specie di birreria. Il locale era arredato con mobili pesanti, come quelli in uso nell’Holstein; c’era brava gente; marinai, cittadini di Copenaghen e un paio di uomini dotti si trovavano lì a discutere intorno ai loro boccali e notarono appena colui che stava entrando.
«Mi perdoni» disse il consigliere all’ostessa che gli stava venendo incontro «ma sto tanto male! Vuole per favore procurarmi una carrozza per andare a Christianshavn?»
La donna lo guardò e scosse la testa; poi gli si rivolse in tedesco. Il consigliere pensò allora che lei non conoscesse il danese, e ripeté la richiesta in tedesco; questo, e i vestiti da lui indossati, confermarono a quella donna che si trattava di uno straniero; però capì subito che stava male e gli portò un boccale d’acqua un po’ salmastra che era stata attinta dal pozzo.
Il consigliere si mise la testa fra le mani, respirò profondamente e meditò su tutte quelle strane cose che si vedeva attorno.
«Questo è il giornale di questa sera?» chiese tanto per dire qualcosa, quando vide la donna con un grande foglio di carta.
Lei non capì, ma gli diede quel foglio, era un’incisione su legno raffigurante un miraggio che era stato visto fuori dalla città di Colonia.
«È molto vecchio!» esclamò il consigliere, e si entusiasmo nel vedere un reperto così vecchio. «Come avete fatto a avere questo rarissimo foglio? È molto interessante, sebbene il tutto sia una favola. Ora si spiegano questi miraggi con l’aurora boreale, ma probabilmente c’entra anche l’elettricità!»
Quelli che gli sedevano vicino e che ascoltavano il suo discorso, lo guardarono meravigliati; uno di loro poi si alzò, si tolse con rispetto il cappello e disse con un viso molto serio: «Voi siete certo una persona molto istruita, Monsieur».
«Oh, no!» rispose il consigliere «so parlare un po’ di tutto, come si dovrebbe saper fare.»
«La modestia è una bella virtù» disse quell’uomo «del resto dopo il suo discorso io devo dire mihi secus videtur, e quindi sospendo volentieri il mio Judicium.»
«Posso chiederle con chi ho il piacere di parlare?» chiese il consigliere.
«Io sono baccelliere della Sacra Scrittura» rispose l’uomo.
La risposta soddisfece il cancelliere, il titolo spiegava il suo abbigliamento. "Certamente" pensò tra sé "è un vecchio maestro di una scuola di campagna, uno strano tipo, come ancora se ne incontrano nello Jutland."
«Questo non è un locus docendi» cominciò l’uomo «però le chiedo di sforzarsi di parlare, lei ha certo una grande conoscenza delle cose antiche.»
«Sì, certo» rispose il consigliere. «Io leggo volentieri tutti quei vecchi scritti utili, ma mi piace anche leggere quelli più nuovi; non però le storie di tutti i giorni, di quelle ne abbiamo abbastanza nella realtà!»
«Le storie di tutti i giorni?» chiese il nostro baccelliere.
«Sì, intendo questi nuovi romanzi che ci sono adesso.»
L’uomo sorrise. «Oh, c’è comunque un grande ingegno in quelli; vengono letti persino a corte! Il re si diverte moltissimo col romanzo di Iffvent e Gaudian che tratta di Re Artù e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda; addirittura ha scherzato sull’argomento con i suoi cortigiani!»
«Quello non l’ho ancora letto» disse il consigliere «deve essere abbastanza nuovo, l’ha senz’altro pubblicato Heiberg.»
«No» rispose l’uomo «non è stato pubblicato da Heiberg, ma da Godfed von Ghemen.»
«Ah quello è l’autore!» esclamò il consigliere «è un nome molto vecchio. È lo stesso nome del primo stampatore che abbiamo avuto in Danimarca.»
«Sì, è il nostro primo stampatore» annuì l’uomo. Il discorso proseguiva bene; uno di quei bravi cittadini parlò della terribile pestilenza che c’era stata qualche anno prima, e intendeva nel 1484, il consigliere invece pensava che si parlasse del colera, e così il discorso filava. La guerra con i corsari del 1190 era tanto recente che se ne dovette parlare; quelli raccontarono che i corsari inglesi avevano catturato le navi nella rada, e il consigliere che conosceva molto bene gli avvenimenti del 1801, si mise a parlar male degli inglesi con grande passione. Ma il resto del discorso non andò altrettanto bene; ogni momento gli interlocutori riproponevano uno stile troppo solenne; quel bravo baccelliere era troppo ignorante e le più semplici affermazioni del consigliere a lui sembravano troppo fantastiche e azzardate. Allora si guardavano, e quando proprio non si capivano il baccelliere cominciava a parlare in latino, perché pensava così di essere capito meglio, ma non serviva a nulla.
«Come si sente adesso?» chiese la padrona, tirando il consigliere per la manica; lui tornò in sé, perché parlando aveva dimenticato tutto quel che gli era successo.
«Oh, Signore, dove mi trovo!» esclamò, e gli vennero le vertigini solo al pensiero.
«Dobbiamo bere del chiaretto! Idromele e birra di Brema» gridò uno degli ospiti «e lei deve bere con noi.»
Entrarono due fanciulle, una con un cappellino a due colori, versarono da bere e s’inchinarono. Il consigliere sentì i brividi alla schiena.
«Che cos’è? che cos’è?» esclamò, ma fu costretto a bere con gli altri; quelli lo afferrarono e lui si disperò, e quando uno di loro disse che era ubriaco, non mise affatto in dubbio le parole di quell’uomo; chiese semplicemente di procurargli una carrozza, ma tutti credettero che stesse parlando russo.
Non si era mai trovato in una compagnia così semplice e rozza. Sembrava persino che il paese fosse tornato ai tempi del paganesimo. "Questo è il momento più terribile della mia vita" pensò. Ma in quel momento pensò di infilarsi sotto il tavolo, di camminare carponi verso la porta e così cercare di uscire, ma gli altri capirono quello che voleva fare e lo afferrarono per le gambe, e così, per sua fortuna, perse le soprascarpe e subito si sciolse l’incantesimo.
Il consigliere ora vedeva molto chiaramente davanti a sé un lampione acceso, e dietro una grande casa che riconobbe, poi riconobbe anche le case vicine; era Østergade, proprio come noi tutti la conosciamo. Lui si trovava sdraiato con le gambe contro un portone e lì di fronte c’era il guardiano notturno che dormiva.
"Santo cielo! sono stato qui sdraiato per strada a sognare!" esclamò lui. "Sì, questa è Østergade! Ah, come è benedetta quella luce, e che colori! È proprio terribile: che effetti ha su di me un bicchiere di punch!"
Due minuti dopo si trovava in una carrozza che lo portò a Christianshavn; e pensando alla paura e alla miseria che aveva provato lodava di cuore quella felice realtà, il nostro tempo, che con tutte le sue mancanze era molto migliore di quello in cui era appena stato; e questo era un discorso davvero ragionevole!
 

3. Le avventure del guardiano notturno

«Guarda, c’è un paio di soprascarpe!» disse il guardiano notturno «sono senza dubbio del tenente che abita qui sopra. Stanno proprio vicino alla sua porta!»
Quel brav’uomo avrebbe suonato al tenente per consegnargliele, dato che c’era ancora la luce accesa, ma non voleva svegliare le altre persone della casa e perciò lasciò perdere.
"Devono essere proprio belle calde da portare ai piedi!" pensò. "Sono di una pelle molto morbida!" E gli andavano proprio bene. "Com’è strano il mondo! Lui ora potrebbe andarsene a letto, e invece cosa fa? Cammina avanti e indietro per la stanza! E è una persona fortunata; non ha né moglie né bambini. Ogni sera è in società; se solo fossi lui, sarei un uomo felice!"
Mentre esprimeva questo suo desiderio, le soprascarpe della felicità che aveva ai piedi agirono immediatamente: la guardia notturna si trovò nella persona e nei pensieri del tenente. Si trovò nella stanza a tenere tra le dita un piccolo foglio rosa su cui c’era una poesia, una poesia scritta dal tenente stesso: non c’è nessuno che nella propria vita non abbia avuto voglia di poetare e non abbia scritto i suoi pensieri che così si sono trasformati in versi. Lì c’era scritto:

Se solo fossi ricco! pregai molte volte,
quando ancora ero un bambinetto.
Se solo fossi ricco, diventerei ufficiale,
avrei una sciabola, l’uniforme e una piuma.
Quel tempo poi venne, e io divenni ufficiale,
ma non divenni mai ricco, purtroppo
Mi aiutasse il Signore!
 
Felice e giovane, mi trovavo di sera,
una fanciulla di sette anni mi baciava la bocca,
perché ero ricco di fiabe e di racconti,
ma povero ero di denari;
ma la fanciulla era interessata solo alle favole,
di quelle ero ricco, ma non di oro,
e questo il Signore lo sa!
 
Se solo fossi ricco! è finita la mia preghiera a Dio,
ora la bimba di sette anni è cresciuta,
è così bella, intelligente, buona,
se lei capisse la favola del mio cuore,
se lei, come prima, mi fosse amica
ma io sono povero, e perciò taccio, così vuole il Signore.
 
Se io fossi ricco di consolazione e di pace,
allora il mio dolore non sarebbe stato scritto sulla carta!
Tu, che io amo, se tu mi capissi,
leggi questo, come una poesia degli anni della gioventù!
Ma è meglio se tu non lo comprendi,
io sono povero, il mio futuro è buio,
che il Signore ti benedica!

Sì, si scrivono questi versi quando si è innamorati, ma un uomo intelligente poi non li pubblica. Il fatto di essere tenente, l’amore, la povertà, sono un triangolo, o meglio, metà del dado spezzato della felicità. Il tenente provava tutto questo, e appoggiava la testa sul davanzale della finestra sospirando profondamente: "Quel povero guardiano laggiù sulla strada è molto più felice di me! Lui non sa che cos’è la nostalgia, lui ha una casa, una moglie e dei bambini che piangono con lui le sue pene e gioiscono alla sua gioia! Ah, sarei molto più felice di quello che sono, se potessi cambiare posto con lui, perché lui è sicuramente più felice di me!".
In quel momento il guardiano notturno tornò a far la guardia: le soprascarpe della felicità lo avevano reso tenente, come abbiamo visto, ma lui si era sentito così poco soddisfatto che voleva tornare a essere quello che era. Quindi il guardiano notturno tornò a fare il guardiano.
«Che brutto sogno!» esclamò «ma era molto strano. Mi sembrava di essere il tenente che c’è lassù e non era affatto divertente. Avevo nostalgia di mia moglie e dei bambini che sono sempre pronti a ricoprirmi di baci!»
Tornò a sedersi e lasciò cadere la testa; il sogno non voleva levarsi dalla mente, e lui indossava ancora quelle soprascarpe. In quel momento una stella cadente solcò il cielo.
«È caduta» disse «ma ce ne sono ancora! Mi piacerebbe proprio vedere quelle cose più da vicino, soprattutto la luna, perché quella non può certo scappare dalle mani. Quando moriamo, così almeno racconta lo studente a cui mia moglie fa le pulizie, voliamo da una stella all’altra. È senz’altro una menzogna, ma potrebbe anche essere vero. Mi piacerebbe fare un saltino lassù, ma il corpo può anche restare qui sulla scala!»
Bisogna essere molto accorti nell’esprimere certi pensieri nel mondo, ma bisognerebbe stare ancora più attenti quando si hanno le soprascarpe della felicità ai piedi.
Sentite che cosa accadde al guardiano notturno.
Per quanto riguarda noi uomini, conosciamo quasi tutte le velocità del vapore acqueo, le abbiamo provate sia sul treno che con le navi che solcano il mare, eppure quella è come la camminata di un pigrone o la marcia di una lumaca, in rapporto alla velocità della luce; questa va 19 milioni di volte più veloce della migliore prestazione in una gara, e l’elettricità è ancora più veloce. La morte è una scossa elettrica che riceviamo nel cuore; sulle ali dell’elettricità l’anima liberata vola via. In otto minuti e pochi secondi la luce del sole compie un viaggio di oltre 20 milioni di miglia; con la velocità dell’elettricità l’anima ha bisogno di pochissimi minuti per fare lo stesso percorso. Lo spazio tra i vari corpi celesti non è, a quella velocità, più grande dello spazio che c’è tra noi e la casa dei nostri amici, anche se quelli abitano molto vicino a noi. Questa scossa elettrica al cuore però ci toglie l’uso del corpo; naturalmente se non abbiamo, come il guardiano notturno, le soprascarpe della felicità ai piedi.
In pochi secondi il guardiano notturno aveva percorso le 52.000 miglia fino alla luna che, come si sa, è costituita di un materiale molto più leggero della terra, e che è soffice, quasi come la neve appena caduta.
Si trovò su uno di quegli innumerevoli crateri che conosciamo dalla grande carta della luna del dottor Madler; questa la conosci, vero? Nella parte interna il cratere sprofondava come un calice, per un intero miglio danese; in fondo si trovava una città che aveva l’aspetto di un bianco d’uovo in un bicchiere d’acqua, molle e piena di torri, di cupole e balconi a forma di vela, trasparenti e fluttuanti nell’aria leggera; la nostra terra era sospesa, come un grande globo di rosso fuoco, sopra la testa del guardiano.
C’erano molte creature e tutte della specie che noi chiamiamo umana, ma avevano un aspetto diverso dal nostro; avevano una loro lingua, nessuno poteva pretendere che l’anima del guardiano notturno sapesse capirla, eppure lui sapeva.
L’anima del guardiano capiva molto bene la lingua degli abitanti della luna. Stavano discutendo della nostra terra e mettevano in dubbio che fosse abitata, perché l’aria era troppo pesante affinché una qualunque creatura lunare potesse abitarvi. Secondo loro solo la luna era abitata da esseri viventi, era l’unico corpo celeste dove abitavano le vecchie popolazioni del cielo.
Ma adesso torniamo a Østergade a vedere come stava il corpo del guardiano. Il bastone gli era caduto di mano e gli occhi guardavano verso la luna alla ricerca di quell’anima onesta che se n’era andata lassù.
«Che ore sono, guardiano?» chiese un passante. Ma il guardiano non rispose, così quello gli diede un pizzicotto sul naso e gli fece perdere l’equilibrio. Il corpo finì lungo e disteso sulla strada: l’uomo era morto. Quello che lo aveva pizzicato si spaventò terribilmente; il guardiano era morto e morto restava; fu data la notizia e se ne parlò molto, al mattino, poi portarono il corpo in ospedale.
Sarebbe stato proprio un bello spasso per l’anima, una volta tornata indietro, cercare il suo corpo in Østergade, come certamente avrebbe fatto, senza trovarlo. Probabilmente sarebbe andata per prima cosa alla polizia, poi all’ufficio informazioni e poi sicuramente all’ufficio oggetti smarriti, e solo alla fine all’ospedale. Ma possiamo consolarci, perché l’anima è intelligente, quando è da sola, è il corpo che la rende stupida.
Come ho già detto, il corpo del guardiano giunse all’ospedale, e fu portato in un locale per essere lavato. Per prima cosa naturalmente gli tolsero le soprascarpe e subito l’anima dovette ritornare lì; si diresse immediatamente verso il corpo e in un attimo tornò la vita in quell’uomo. Egli assicurò di aver passato la più terribile notte della sua vita; disse che non avrebbe voluto provare le stesse sensazioni nemmeno per due marchi, ma ormai tutto era passato.
Lo stesso giorno fu dimesso dall’ospedale, ma le soprascarpe rimasero lì.

 

4. Storia di una testa. Una recita.

Un viaggio veramente straordinario
Ogni abitante di Copenaghen sa bene come è l’ingresso del Frederiks Hospital, ma dato che probabilmente anche alcuni lettori che non abitano a Copenaghen leggeranno questa storia, dovremo darne una breve descrizione.
L’ospedale è separato dalla strada da una cancellata piuttosto alta le cui sbarre di ferro, abbastanza grosse. sono così lontane fra loro che si racconta che dottorini molto sottili siano riusciti a infilarsi tra queste per fare qualche breve visita fuori dall’ospedale.
La parte del corpo che però è più difficile da portare fuori è sempre stata la testa; qui, come spesso nel mondo, i più fortunati erano quelli con la testa piccola. Questo dovrebbe bastare come introduzione.
Uno dei giovani volontari di cui si potrebbe dire che avesse una gran testa, ma solo per quanto riguardava l’aspetto, era di turno quella sera; e pioveva terribilmente. Eppure, nonostante questi due ostacoli, lui voleva uscire, solo per un quarto d’ora, e pensava non fosse qualcosa che valeva la pena di confidare al portiere, quando poteva passare tra quelle sbarre di ferro. Lì vicino c’erano le soprascarpe che la guardia notturna aveva dimenticato; naturalmente il dottorino non sapeva che fossero quelle della felicità: le infilò perché pensava sarebbero state ottime con quel tempo. Ora doveva cercare di passare attraverso le sbarre e non aveva mai provato prima di allora. Arrivò vicino al cancello.
«Se solo avessi già la testa dall’altra parte!» disse e subito, nonostante fosse molto grossa, la testa passò con facilità e felicemente attraverso le sbarre; era stato merito delle soprascarpe, ma ora doveva passare anche il corpo.
«Oh, sono troppo grasso!» esclamò «pensavo che la testa fosse la cosa peggiore, ma adesso non riesco a passare.»
Allora volle riportare indietro la testa, ma non ci riuscì. Poteva tranquillamente muovere il collo, ma era l’unica cosa che riusciva a fare. Per prima cosa si arrabbiò, poi fu preso da una depressione profonda. Le soprascarpe della felicità lo avevano messo in una posizione molto brutta, e sfortunatamente non pensava a desiderare di essere libero; no, cercava di agire e così non riusciva a levarsi da quel posto. La pioggia continuava a scrosciare, ma non si vedeva nessuno per la strada. Il campanello era irraggiungibile, come poteva liberarsi? Si disse che sarebbe rimasto lì fino al mattino, poi avrebbero dovuto chiamare un fabbro per segare le sbarre di ferro, ma non sarebbe accaduto molto in fretta; prima sarebbero passati tutti gli scolaretti vestiti di blu, poi tutti i marinai sarebbero arrivati per vederlo lì intrappolato, ci sarebbe certo stata una folla molto maggiore che per la gigantesca agave dell’anno scorso. "Oh! il sangue mi va alla testa, così impazzisco! Sì, impazzisco! Ah, se solo fossi libero di nuovo, allora starci certo meglio!"
Ecco questo lo avrebbe dovuto dire un po’ prima; nello stesso momento in cui il pensiero venne espresso si trovò con la testa libera e si precipitò nella sua stanza, fuori di sé per lo spavento che le soprascarpe della felicità gli avevano procurato.
Ma non dobbiamo credere che tutto fosse finito, anzi ora viene il peggio.
Passò la notte e il giorno successivo e nessuno venne a prendere le soprascarpe.
Di sera doveva esserci una rappresentazione nel piccolo teatro di Kannikestraede. Il locale era pieno zeppo; tra i diversi numeri veniva recitata una nuova poesia. Ora l’ascolteremo. Il titolo era:

Gli occhiale della nonna

L’intelligenza della mia nonna è conosciuta.
Se si fosse nei tempi passati, lei verrebbe certo bruciata.
Conosce tutto quello che accade, sì, ancora di più,
vede persino nell’anno venturo, sì,
ma non vuole dirlo chiaramente.
Che cosa accadrà quindi l’anno prossimo?
Che accadrà di strano? Sì, mi piacerebbe vedere
il mio destino, quello dell’arte e del nostro paese,
ma la nonna non vuole che venga detto.
Io l’ho tormentata tanto che l’ho convinta,
prima è rimasta zitta, poi si è fatta piccola,
e mi ha fatto un lungo discorso senza senso.
Io infatti sono il suo preferito!
 
Per questa volta esaudirò il tuo desiderio,
cominciò, dandomi i suoi occhiali.
Ora vai in un luogo, a tua scelta,
in un luogo dove ci siano molte persone,
dove tu possa vederle, mettiti in qualche posto,
e guarda quella folla attraverso i miei occhiali;
subito, tutti quanti, credimi,
appariranno come un gioco di carte aperto sul tavolo;
con questi potrai prevedere quello che accadrà!
Io la ringraziai e corsi via, volevo vedere,
ma pensai, dove si raduna tanta gente?
A Langelinie? Lì ci si prende un malanno.
In Østergade? Oh, lì c’è un tale fango!
A teatro? Questa è un’idea.
Lo spettacolo della sera è proprio l’ideale.
E eccomi qui! Ora mi presento.
Permettetemi di usare gli occhiali della nonna
solo per vedere, ma non me ne vado!
vedere se voi apparite come un gioco di carte,
dal quale io possa prevedere quel che il tempo riserba.
Io interpreto il vostro silenzio come un’affermazione,
sarete resi partecipi di un grande segreto.
Qui siamo tutti in gioco. Io guardo per voi, per me,
per il paese e per il nostro regno.
Ora voglio vedere quello che dicono le carte.
E si mise gli occhiali.)
Oh, è vero! No, adesso devo ridere!
Oh, se solo voleste venir su a vedere anche voi!
Oh, quante carte di re e di fanti!
e le donne di cuori, c’è tutta la serie,
e poi le carte nere, le picche e i fiori.
Ora ho proprio una bella vista!
Io vedo la dama di picche bella grossa
che rivolge i suoi pensieri al fante di quadri.
E questa vista mi rende ubriaco!
Ci sono molti soldi qui in teatro,
e stranieri che vengono dall’altra parte del mondo.
Ma non è quello che volevamo sapere.
Sulle classi sociali? Vediamo… nel futuro.
Ma di ciò si leggerà in seguito.
Se adesso parlassi, danneggerei la rivista,
e io non voglio togliere il meglio dal piatto.
E il teatro? Che novità, il gusto, la tonalità?
no, voglio stare in buoni rapporti col direttore.
E il mio futuro? E già, voi sapete che le nostre cose
sono molto care al nostro cuore!
Io vedo! Non posso dire cosa vedo,
ma voi lo saprete non appena accadrà.
Chi è il più felice di noi quaggiù?
Il più felice? Posso trovarlo facilmente.
E no, potrebbe facilmente dar fastidio,
probabilmente rattristerebbe molti!
Chi vivrà più a lungo? Quella donna laggiù o quel signore?
No, se lo rivelassi sarebbe molto peggio!
Devo rivelare qualcosa? No! Qualcosa? No! Qualcosa? No!
Be’, alla fine non lo so più neppure io.
Sono imbarazzato, è facile ferire qualcuno,
ora vedo quello che voi credete e pensate,
io tacerò con la mia capacità di prevedere.
Voi credete? No! Che cosa? Qui intorno
credete che finirà con un bel niente.
Sapete certamente che non otterrete nulla.
Allora taccio, solenne assemblea,
vi lascerò le vostre opinioni!

La poesia venne recitata splendidamente e il recitante ebbe grande successo. Tra gli spettatori c’era anche il volontario dell’ospedale, che sembrava avesse dimenticato l’avventura della notte precedente, ma le soprascarpe le aveva ancora ai piedi perché non erano state ritirate e, dato che c’era fango per la strada, gli tornavano utili.
A lui la poesia piacque.
Pensò molto a quell’idea, gli sarebbe piaciuto avere occhiali simili, forse, se si fossero usati nel modo giusto, si sarebbe potuta vedere la gente proprio nel cuore, e quello sarebbe stato molto più interessante, pensava, che non vedere quello che sarebbe accaduto l’anno prossimo, perché questo si viene comunque a sapere, mentre il resto non si conosce mai. "Mi piacerebbe tanto poter guardare nel cuore di tutte quelle signore della prima fila là davanti, sì, dovrebbe essere uno spazio aperto, una specie di negozio; ah, quante cose potrebbero vedere i miei occhi in quel negozio! In quella signora troverei senz’altro una grande commerciante di moda! In quell’altra il negozio sarà vuoto, e dovrà essere ripulito. Ma ci saranno anche negozi rispettabili! Eh sì!" sospirò "ne conosco uno in cui tutto è molto rispettabile, ma dentro c’è già un garzone, e questa è l’unica cosa cattiva del negozio. Da uno o dall’altro si sentirebbe gridare: ‘Prego accomodatevi!’ sì, mi piacerebbe proprio entrarci, come un piccolo pensiero che passa attraverso i cuori!"
Ecco, queste parole bastarono alle soprascarpe; il volontario divenne sempre più piccolo e cominciò uno stranissimo viaggio proprio in mezzo ai cuori di quelli della prima fila. Il primo cuore in cui passò apparteneva a una signora; ma lui subito credette di essere in un istituto ortopedico, quella casa dove il dottore elimina i difetti della gente e raddrizza le persone; si trovava nella stanza in cui i calchi di gesso degli arti anormali erano appesi alla parete, l’unica differenza era che all’istituto i calchi vengono presi quando il paziente entra, mentre qui nel cuore erano presi e conservati quando le brave persone se n’erano andate. Erano i calchi delle amiche, i loro difetti fisici e spirituali, che qui venivano conservati.
Passò velocemente in un altro cuore di donna, e questo gli sembrò una grande chiesa. Le bianche colombe dell’innocenza volavano intorno all’altare maggiore; si sarebbe inginocchiato volentieri, ma doveva proseguire, entrare in un nuovo cuore, ma ancora sentiva la musica dell’organo e gli sembrava addirittura di essere diventato migliore; si sentì degno di entrare nel nuovo santuario. Questo era una soffitta molto povera dove abitava una madre malata; ma attraverso la finestra aperta entravano i caldi raggi del sole di Dio, belle rose si affacciavano dalla cassetta di legno sul tetto, e due uccelli azzurri come il cielo cantavano pieni di gioia, mentre la madre ammalata implorava la benedizione sulla sua figliola.
Poi lui camminò carponi attraverso una macelleria piena fino all’orlo; vedeva carne e ancora carne, era il cuore di un ricco molto rispettabile il cui nome sicuramente si trova tra le persone importanti.
Poi entrò nel cuore della moglie di questo, e vide una vecchia piccionaia cadente; il ritratto del marito veniva usato come segnavento e era stato collegato con le porte, in modo che queste si aprissero e si chiudessero non appena l’uomo si muoveva.
Poi entrò in uno studio pieno di specchi, come quello che si trova nel Castello di Rosenborg, ma gli specchi ingrandivano terribilmente. In mezzo alla stanza c’era seduto, come un Dalai-Lama, l’insignificante Io di una persona, assorto nell’ammirare la propria grandezza.
Quindi sembrò al dottorino di essere entrato in una casa stretta piena di aghi appuntiti, pensò che fosse il cuore di una vecchia zitella, ma in realtà era quello di un giovane militare che aveva avuto molte decorazioni, uno di quelli che si dicono uomini di spirito e di cuore.
Completamente stordito, il giovane volontario uscì dall’ultimo cuore della fila e non riuscì a rimettere in ordine i suoi pensieri, gli sembrò che la sua fantasia, troppo ricca, gli avesse preso la mano.
"Oh, Signore" sospirò "sto certo diventando pazzo! E poi qui fa un caldo insopportabile! Il sangue mi va alla testa!" E allora ricordò quei grandi avvenimenti della sera prima, come la sua testa si era infilata tra le sbarre di ferro dell’ospedale. "È tutta colpa di quello!" pensò. "Devo subito correre ai ripari. Un bagno turco potrebbe essere una buona idea. Se solo mi trovassi già sulla panca più alta!"
E subito si trovò sulla panca più alta in un bagno di vapore, ma era là con tutti i suoi vestiti, con gli stivali e le soprascarpe; e le gocce bollenti di acqua dal soffitto gli cadevano sul viso.
«Ahi!» gridò e si precipitò giù per farsi una doccia. Anche il guardiano si mise a gridare quando vide che c’era un uomo totalmente vestito là dentro.
Il volontario aveva avuto tanto buon senso da sussurrargli: «È una scommessa!» ma la prima cosa che fece, quando tornò nella sua camera, fu di mettersi un gran foglio di carta vetrata sulla schiena e uno sulle spalle, affinché la pazzia uscisse da lui.
Il mattino dopo si ritrovò con la schiena sanguinante, e questo fu tutto quanto guadagnò con le soprascarpe della felicità.

 

5. La trasformazione del copista

Il guardiano notturno, che noi certamente non abbiamo dimenticato, si ricordò improvvisamente delle soprascarpe che aveva trovato e portato con sé in ospedale; andò a prenderle, ma poiché né il tenente né altri abitanti della strada le riconobbero, furono consegnate alla polizia. «Sembrano proprio le mie soprascarpe!» disse uno dei copisti, che stava osservando gli oggetti smarriti, e le mise accanto alle sue. «Neppure l’occhio di un calzolaio sarebbe in grado di distinguerle!» «Signor copista!» disse un servitore, che entrò con alcune carte.
Il copista si volse, parlò con lui, e quando tutto fu finito si rimise a guardare le soprascarpe; non sapeva più se erano quelle di destra o quelle di sinistra quelle che appartenevano a lui. "Devono essere quelle bagnate!" pensò, ma sbagliava, perché erano invece quella della felicità; naturalmente anche la polizia può sbagliare. Mise nella tasca e sotto il braccio alcune carte che dovevano essere rilette e riscritte a casa; ma era domenica mattina e il tempo era bello, quindi pensò che gli avrebbe fatto bene un giro a Frederiksberg. Così andò laggiù.
Non c’era persona più tranquilla e diligente di questo giovane, quindi fece proprio bene a farsi una passeggiata dopo essere stato seduto tanto a lungo. All’inizio camminò senza pensare a niente, così le soprascarpe non ebbero la possibilità di mostrare la loro forza magica.
Nel viale incontrò un conoscente, un giovane poeta, che gli raccontò che il giorno dopo avrebbe fatto un viaggio.
«Ah, deve partire di nuovo!» disse il copista. «Lei è proprio fortunato, è un uomo libero. Può andarsene dove vuole, noi invece abbiamo una catena al piede.»
«Sì, ma è legata all’albero del pane!» rispose il poeta. «Lei non ha certo bisogno di preoccuparsi per il domani, e quando sarà vecchio avrà la pensione.»
«Ma lei sta meglio!» ribatté il copista. «Deve essere proprio un piacere starsene lì a poetare! Tutto il mondo le fa i complimenti e lei è padrone di se stesso. Eh, sì, dovrebbe provare a starsene al tribunale con tutte quelle noiose scartoffie!»
Il poeta scosse la testa, anche il copista scosse la testa, ognuno si tenne la propria opinione e si divisero.
«Eh, i poeti, sono proprio gente particolare!» esclamò il copista «mi piacerebbe provare a penetrare in una tale natura, diventare anch’io un poeta, e sono certo che non mi metterei a scrivere piagnistei come fanno gli altri. Poi oggi è proprio un giorno di primavera adatto a un poeta! L’aria è straordinariamente trasparente le nuvole così belle, e c’è un profumo con tutto quel verde! Da molti anni non ho provato quello che provo in questo momento.»
Noi già notiamo che è diventato poeta; la cosa non era certo visibile, perché sarebbe assurdo immaginarsi un poeta diverso dagli altri uomini, tra questi ci sono senz’altro nature molto più poetiche di quella di un grande poeta riconosciuto: la differenza sta soltanto nel fatto che il poeta ha una memoria spirituale migliore, può mantenere l’idea e la sensazione finché questa non si è trasformata chiaramente e con precisione in versi, cosa che gli altri non sanno fare. Ma certamente passare da una natura comune a una dotata è sempre un salto e questo il copista l’aveva appena fatto.
«Che delizioso profumo» esclamò «mi ricorda le violette della zia Lone. Già, allora ero ancora un ragazzo. Oh, Signore, per tantissimo tempo non ho mai pensato a quella brava zitella! Abitava proprio dietro alla Borsa, aveva sempre un ramoscello o qualche germoglio verde nell’acqua, non importava quanto fosse rigido l’inverno. Le violette profumavano, mentre io appoggiavo le monetine di rame riscaldate sul vetro gelato e facevo degli spiragli per guardare fuori. Era una meravigliosa prospettiva. Fuori nel canale le navi erano bloccate dal ghiaccio, abbandonate da tutti gli uomini, solo una cornacchia gracchiante costituiva l’equipaggio; ma quando poi giungeva la primavera, allora c’era da fare. Cantando e con grida di Urrà il ghiaccio veniva rotto. Le navi venivano incatramate e attrezzate di nuovo, in modo che potessero dirigersi verso terre straniere; io sono rimasto qui, e sempre dovrò restarci, sempre nell’ufficio della polizia a vedere che gli altri ritirino il passaporto per viaggiare all’estero, questo è il mio destino! Oh!» sospirò profondamente, ma altrettanto improvvisamente si fermò. «Oh Dio, che cosa mi succede? Non avevo mai pensato o provato nulla di simile: dev’essere l’aria di primavera. È un misto di paura e di piacere.» Trasse dalla tasca le sue carte. «Queste mi daranno ben altro a cui pensare!» disse, e lasciò scorrere gli occhi sulla prima pagina. «La Signora Sigbrith, tragedia originale in cinque atti» lesse «che cos’è? Ma l’ho scritto io stesso. Ho forse scritto una tragedia? Intrigo sui bastioni o Il giorno della preghiera, Vaudeville. Da dove ho preso questa roba? Qualcuno deve averla messa nella mia tasca; qui c’è una lettera.» Sì, era del direttore del teatro, quei pezzi erano stati respinti e la lettera non era affatto gentile. "Uhm!" pensò il copista, sedendosi su una panca; i suoi pensieri erano così vivi e il suo cuore così commosso; involontariamente afferrò uno dei fiori che stavano più vicino, era una piccola margherita, molto semplice; quello che un botanico potrebbe dirne solo con molte lezioni, la margherita lo rivelò in un attimo, raccontò il mito della sua nascita, la forza della luce del sole che aveva dischiuso i suoi petali sottili facendoli profumare, poi lui pensò alla lotta della vita, che allo stesso modo risveglia i sentimenti nel nostro petto. L’aria e la luce erano le amanti del fiore, ma la luce era la sua preferita, lei si piegava sempre verso la luce e, quando questa scompariva, raccoglieva i petali e si addormentava nell’abbraccio dell’aria. "È la luce che mi rende bella!" disse il fiore. "Ma l’aria ti permette di respirare!" le sussurrò la voce del poeta.
Lì vicino c’era un ragazzo che batteva con un bastone in una pozzanghera piena di fango; le gocce d’acqua schizzavano tra i rami verdi, il copista pensò a milioni di animali invisibili che con le gocce venivano gettati in alto: per loro doveva essere come per noi venir gettati in alto o sopra le nubi. Il copista, riflettendo a queste cose e a tutto quel cambiamento avvenuto in lui, sorrise. "Sto sognando! Comunque è straordinario. Sognare in modo così veritiero, e sapere che è solo un sogno. Se solo domani potessi ricordarmi tutto quando mi sveglierò adesso mi sembra di essere proprio straordinario! Ho una visione chiara di tutte le cose, mi sento così lucido, ma so che quando domani ricorderò qualcosa, allora mi sembreranno tutte sciocchezze, l’ho già sperimentato prima! Accadrà come con tutte quelle cose meravigliose e intelligenti che si ascoltano e si dicono nel sogno e che sembrano l’oro degli elfi; nel momento in cui uno lo scopre questo appare bello e meraviglioso, ma quando lo si vede di giorno restano solo foglie secche e pietre. Ah!" sospirò tristemente guardando gli uccelli che cantavano, e che saltavano divertiti tra un ramo e l’altro. "Loro stanno certo meglio di me! Volare, volare, è una bella arte, felice colui che è nato capace di farlo! Sì, se potessi ottenere qualcosa, vorrei essere una piccola allodola!"
In quello stesso momento le maniche e le falde dell’uniforme si unirono trasformandosi in ali, i vestiti divennero piume e le soprascarpe zampine. Lui notò tutto questo e si mise a ridere tra sé: "Ecco, adesso posso proprio vedere che sto sognando ma un sogno così strano non l’ho mai fatto prima d’ora!". Volò tra i rami verdi e si mise a cantare, ma non c’era poesia nella sua canzone, perché la natura di poeta era sparita; le soprascarpe potevano, come ognuno che fa qualcosa di buono, compiere solo un azione alla volta, lui aveva voluto essere poeta e lo era diventato; ora voleva diventare un uccellino, ma diventandolo aveva perso le qualità precedenti.
"È proprio bella! di giorno me ne sto negli uffici della polizia tra le scartoffie più concrete del mondo, di notte posso sognare di volare come un’allodola nel giardino di Frederiksberg; ci potrei quasi scrivere un’intera commedia!"
Poi volò giù nell’erba, girò la testa da tutte le parti e batté col becco quei sottili fili d’erba che, paragonati alla sua attuale statura, gli sembravano grandi come le palme del Nord-africa.
Ma un attimo dopo fu notte intorno a lui, gli sembrò che un oggetto enorme gli venisse gettato sopra: era un grande berretto che un ragazzo dei quartieri dei marinai aveva gettato su quell’uccello; poi sopraggiunse una mano che afferrò il copista per la schiena e per le ali, e lui strillò. In preda al terrore del primo momento gridò a voce alta: «Monellaccio senza rispetto! sono un copista degli uffici della polizia!» ma tutto questo alle orecchie del ragazzo suonò come un cip cip. Batté l’uccello sul becco e se ne andò.
Nel viale incontrò due scolari che appartenevano a una classe sociale elevata, ma che, in quanto a cultura, erano gli ultimi della scuola; questi comprarono l’uccello per otto scellini e così il copista arrivò a Copenaghen da una famiglia che abitava a Gothersgade.
"Fortuna che sogno" disse il copista "altrimenti mi sarei arrabbiato! Prima ero poeta, adesso sono un’allodola! Già, è stata la natura del poeta che mi ha fatto diventare uccellino! Ma è una brutta storia, soprattutto quando si cade nelle mani di certi ragazzi. Mi piacerebbe sapere come va a finire!"
I ragazzi lo portarono in una grande stanza elegante; una donna grassa e ridente andò loro incontro; ma non fu affatto contenta di vedere che avevano con sé quel semplice uccello di campo, come lei chiamava l’allodola; comunque per quel giorno avrebbe lasciato correre, dovevano metterlo in quella gabbia vuota che c’era vicino alla finestra! «Farà forse contento il pappagallo» continuò ridendo e accennando a un grande pappagallo verde che si dondolava elegantemente sul suo anello in una meravigliosa gabbia di ottone. «Oggi è il compleanno del pappagallo!» disse poi con un tono stupidamente infantile. «Perciò questo piccolo uccello di campo vuole fargli gli auguri.»
Il pappagallo non rispose affatto, ma continuò a dondolarsi con grande eleganza avanti e indietro; invece un bel canarino, che l’estate prima era stato portato fin lì dalla sua calda patria profumata, cominciò a cantare a voce alta.
«Strillone!» esclamo la donna gettando un fazzoletto bianco sulla gabbia.
«Cip, cip!» sospirò quello «come nevica!» E con questo sospiro tacque.
Il copista, o meglio, come diceva la donna, l’uccello di campo si trovò in una gabbietta vicino a quel canarino, non lontano dal pappagallo. L’unica espressione umana che quel pappagallo conosceva, e che spesso suonava molto comica, era: "No, siamo uomini!". Tutto il resto che diceva era incomprensibile, proprio come il cinguettio del canarino, ma non per il copista che ora era un uccello come loro e che comprendeva i suoi buoni compagni.
«Io volavo sotto la palma verde e sotto il mandorlo in fiore!» cantava il canarino «volavo con i miei fratelli e sorelle sopra i magnifici fiori e sul lago trasparente come il vetro, dove le piante si riflettevano, piegandosi verso l’acqua; ho visto anche molti bei pappagalli che raccontavano storie divertentissime, lunghe e numerose.»
«Erano uccelli selvatici» rispose il pappagallo «non avevano istruzione. No, siamo uomini! Perché non ridi! Se la signora e tutti gli stranieri ne ridono, allora devi farlo anche tu. È un grande difetto non saper godere delle cose divertenti. No, siamo uomini!»
«Oh, ti ricordi quelle belle ragazze che ballavano sotto la tenda montata vicino agli alberi in fiore? Ti ricordi quei dolci frutti e quel succo ristoratore delle erbe selvatiche?»
«Oh, sì!» rispose il pappagallo «ma io qui sto molto meglio! Mi danno da mangiare bene e vengo trattato con rispetto. So di essere intelligente e non pretendo di più. Siamo uomini! Tu sei un’anima di poeta come dicono, io invece ho solide conoscenze e umorismo. Tu hai del genio, ma non hai il buon senso. Raggiungi naturalmente note molto alte, e per questo ti coprono. Ma a me non lo fanno, perché sono costato un po’ di più. Faccio impressione col mio becco e posso fare vits, vits! No, siamo uomini!»
«Oh, la mia calda patria in fiore!» cantò il canarino. «Voglio cantare dei tuoi alberi verde scuro, delle tue tranquille baie sul mare dove i rami baciano la trasparente superficie dell’acqua, voglio cantare del giubilo di tutti i miei splendenti fratelli e sorelle, là dove cresce la pianta del deserto, il cactus!»
«Lascia stare quei toni piagnucolanti!» gli disse il pappagallo «di’ qualcosa di cui si possa ridere! La risata è il segno del più alto stato spirituale. Guarda se un cane o un cavallo sanno ridere: no, sanno piangere, ma non ridere, questo è dato solo agli uomini. Ah, ah!» rise il pappagallo, ripetendo il suo motto: «Siamo uomini, siamo uomini!».
«Tu piccolo uccello danese grigio» disse il canarino «anche tu sei stato catturato! È certamente freddo nei tuoi boschi, ma anche lì c’è la libertà, vola via! Hanno dimenticato di chiudere la porta, e la finestra in fondo è aperta. Vola, vola!»
E così fece il copista, in un attimo fu fuori dalla gabbia, ma nello stesso momento la porta socchiusa che dava nella stanza accanto scricchiolò e entrò il gatto di casa, agile, con splendenti occhi verdi, e si mise a cacciarlo. Il canarino si agitava nella gabbia, il pappagallo batté le ali e gridò: «Siamo uomini!». Il copista si spaventò a morte e volò via attraverso la finestra sulle case e sulle strade; alla fine dovette riposarsi un po’.
La casa lì vicino aveva qualcosa di familiare; una finestra era aperta, lui volò dentro, era casa sua. Così si mise sul tavolo.
«Siamo uomini!» disse senza neppure pensare a quel che diceva, copiando il pappagallo, e nello stesso momento ridivenne copista, ma era seduto sul tavolo.
«Oh Signore!» disse «come ho fatto a salire quassù e poi a addormentarmi? È stato un sogno agitato. Tutto quanto non è che una gran sciocchezza!»
6. Ciò che di meglio le soprascarpe portarono
Il giorno dopo, di mattina presto, quando il copista ancora dormiva, bussarono alla sua porta; era il suo vicino, uno studente di teologia, che entrò.
«Prestami le soprascarpe» disse «è tutto bagnato in giardino ma il sole splende e voglio andar giù a farmi una fumatina.»
Si mise le soprascarpe e in un attimo fu giù in giardino dove c’erano un prugno e un pero. Anche se era piccolo, il giardino era un gran tesoro dato che si trovava a Copenaghen.
Lo studente camminò avanti e indietro, erano solo le sei e dalla strada risuonò il corno di un postiglione.
«Oh, viaggiare, viaggiare!» esclamò allora «è la cosa più bella del mondo. È la massima aspirazione dei miei desideri. Sicuramente quella inquietudine che sento si placherebbe. Ma dovrebbe essere lontano! Vorrei vedere la splendida Svizzera, viaggiare in Italia e…»
Per fortuna le soprascarpe agivano immediatamente, altrimenti sarebbe arrivato troppo lontano, sia per se stesso che per noi. Stava viaggiando. Era nel cuore della Svizzera con altre otto persone, pigiato all’interno di una diligenza: aveva mal di testa e sentiva tutta la stanchezza sulla schiena il sangue gli era sceso fino alle gambe, che si erano gonfiate e premevano negli stivali; era in uno stato di dormiveglia. Nella tasca destra aveva una lettera di credito, in quella sinistra il passaporto e sul petto in un piccolo sacchettino di pelle, alcuni luigi d’oro. Ogni volta che sognava gli pareva che uno di quei tesori fosse perduto; per questo si svegliava agitato e il primo movimento che faceva con la mano era un triangolo da destra a sinistra fino al petto, per sentire se aveva ancora tutto. Ombrelli, bastoni, cappelli dondolavano sopra di loro e impedivano la vista, che era veramente straordinaria; lui provava a guardare mentre il suo cuore cantava quello che un poeta che io conosco bene ha cantato in Svizzera ma che fino a ora non è mai stato pubblicato:
Qui è bello proprio come il cuore desidera.
Io vedo il Monte Bianco, così maestoso.
Se solo avessi soldi a sufficienza,
resterei qui!
Tutta la natura intorno era grandiosa, severa e scura. I boschi di abete sembravano erica nata sulle alte rocce, la cui cima si nascondeva tra le nuvole. Poi incominciò a nevicare e soffiò un vento gelido.
"Oh!" sospirò lui "se solo fossi già dall’altra parte delle Alpi, sarebbe estate e così avrei anche ritirato i soldi della lettera di credito; la paura che ho per questi non mi fa godere la Svizzera. Ah, se solo fossi dall’altra parte!" e così si trovò dall’altra parte, nel cuore dell’Italia, tra Firenze e Roma. Il Lago Trasimeno, illuminato dalla luce della sera, sembrava di oro fiammante; tra quelle scure montagne dove Annibale aveva vinto Flaminio, i tralci di vite s’intrecciavano pacificamente; dei bambini mezzi nudi e graziosissimi sorvegliavano un gruppo di maiali neri come il carbone sotto un boschetto di alloro profumato. Poteva essere un quadretto, e tutti nel vederlo avrebbero esclamato: "Bella Italia!" ma non lo disse né il teologo né alcuno dei compagni di viaggio che si trovavano nella carrozza.
A migliaia volavano intorno a loro mosche velenose e zanzare, che invano cacciavano con un ramo di mirto: gli insetti pungevano ugualmente. Nessuno di quanti era in carrozza poté evitare che il viso gli si gonfiasse e sanguinasse per le morsicature. I poveri cavalli sembravano delle carogne: gli insetti si erano posati su di loro in grandi sciami, e solo per un momento si sollevavano quando il vetturino scendeva per raschiare la schiena di quei poveri animali. Il sole tramontò e un breve ma gelido brivido di freddo passò per tutta la campagna. Non era affatto piacevole, ma tutt’intorno le montagne e le nuvole assunsero i colori più belli, trasparenti e luminosi… ma andate voi stessi a vederli, è molto meglio che leggerne la descrizione! Era meraviglioso! E lo trovarono così anche i viaggiatori, ma lo stomaco era vuoto, il corpo stanco, e tutti desideravano di cuore trovare un alloggio per la notte. Ma come sarebbe stato? In realtà pensavano molto di più a trovare un alloggio che non a ammirare la splendida natura.
La strada passava in mezzo a un bosco di olivi, era come viaggiare in patria tra salici nodosi e là si trovava una locanda solitaria. Proprio davanti stava una mezza dozzina di mendicanti; quello che aveva l’aspetto migliore sembrava il figlio primogenito della fame, quello che aveva raggiunto la maturità. Gli altri o erano ciechi o avevano le gambe rattrappite e strisciavano sulle mani, o avevano braccia ciondolanti e mani senza dita. Erano proprio la miseria in carne e ossa. «Eccellenza, Miserabili!» sospirarono tendendo gli arti malati. La padrona della locanda andò verso gli ospiti a piedi nudi, coi capelli arruffati e vestita di un camicione sporco. Le porte erano tenute chiuse con le corde, il pavimento nelle stanze era fatto di mattoni rotti, volavano pipistrelli proprio sotto il soffitto, e c’era una puzza!
«È meglio apparecchiare nella stalla!» disse uno dei viaggiatori «laggiù almeno si sa quello che si respira!»
Le finestre vennero aperte affinché entrasse un po’ d’aria fresca, ma, molto più veloci, entrarono le braccia rattrappite e l’eterno lamento: «Miserabili! Eccellenza!».
Sulle pareti c’erano molte iscrizioni, metà di queste contro la bella Italia!
Il pranzo venne servito: una zuppa fatta di acqua e insaporita con pepe e olio rancido, lo stesso tipo di olio usato per l’insalata; uova marce e creste di gallo arrostite erano il piatto principale, persino il vino aveva un sapore tremendo, era un vero e proprio miscuglio.
Per la notte le valigie vennero ammucchiate davanti alla porta: uno dei viaggiatori doveva fare da guardia mentre gli altri dormivano; e fare da guardia toccò al teologo. Oh, che odore c’era li dentro! Il caldo soffocava, le zanzare ronzavano e pungevano, i miserabili che stavano là fuori si lamentavano nel sonno.
"Già, viaggiare è bello" sospirò lo studente "purché non si abbia il corpo! Se solo questo si potesse riposare e lo spirito invece potesse volare, volare! Ovunque io vada c’è una miseria che tocca il cuore, vorrei avere qualcosa di meglio di quello che può concedere l’istante, sì, qualcosa di meglio, il meglio, ma dov’è? che cos’è? In fondo io so bene che cosa desidero, voglio arrivare a una meta felice, la più felice di tutte!"
Mentre pronunciava queste parole si ritrovò a casa; le lunghe tendine bianche erano state abbassate davanti alla finestra e in mezzo alla stanza si trovava una bara nera in cui giaceva lui stesso immerso nel sonno tranquillo della morte, il suo desiderio era stato esaudito, il corpo riposava e lo spirito viaggiava.
"Non considerare nessuno felice, prima che sia nella sua tomba" ha detto Solone, e qui se ne ha la conferma.
Ogni cadavere è una sfinge dell’immortalità: ma neppure quella sfinge che si trovava nella bara nera corrispondeva a quel che lui da vivo aveva scritto due giorni prima:
Morte vigorosa, il tuo silenzio fa rabbrividire,
la tua traccia è solo data dalle tombe del cimitero.
Si infrangerà la speranza della Scala di Giacobbe?
Mi sveglierò, come erba, nel giardino della morte?
Spesso il mondo non vede la nostra maggiore sofferenza!
A te che eri solo, fino all’ultimo istante,
non peserà troppo sul cuore
la terra che getteranno sulla tua bara!
Due figure si muovevano nella stanza, noi le conosciamo entrambe: erano la fata del dolore e la rappresentante della felicità, si piegarono sul morto.
«Vedi» disse il dolore «che felicità hanno portato agli uomini le tue soprascarpe?»
«Per lo meno hanno portato a quello che dorme qui la pace eterna!» rispose la gioia.
«Oh no!» disse il dolore «se n’è andato per volontà sua, non perché è stato chiamato! Le forze spirituali che aveva qui sulla terra non sono state sufficienti per ottenere lassù i tesori che gli erano stati destinati.»
E gli tolse dai piedi le soprascarpe; allora il sonno della morte finì, e il resuscitato si alzò. Il dolore sparì e con il dolore le soprascarpe; senza dubbio le considerava una sua proprietà.

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